sabato 22 dicembre 2007

La formella



Un graffito d'antan

La formella in cotto, nella foto qui a lato, si trova sulla parete della terza campata minore sud della chiesa di San Michele di Lomello. Si tratta della prima testimonianza relativa alla chiesa, la cui interpretazione non è certa. La data impressa accanto alla denominazione, il 1121, potrebbe infatti alludere sia alla data di fondazione, sia a quella di consacrazione dell'edificio religioso.
Si segnala al riguardo il lavoro di ricerca della lomellese Manuela Iodice, autrice di una tesi di laurea su San Michele Arcangelo. Uno stralcio della tesi è stato pubblicato in "Lomellina romanica". Primo censimento sulle emergenze romaniche presenti nel territorio lomellino", a cura di Italia Nostra, Sezione Lomellina, Archivio Lomellino n. 13, 2005.
La reliquia.
Nella cappella della Croce, sulla parete sinistra, è murata una piastrella in cotto, incisa in latino medievale con le abbreviature che si usavano all’epoca. Ecco la traduzione: "Qui giace il corpo del Reverendo Guglielmo de Grossis, francese della città di Sant' Egidio (oggi
Saint Gilles), il quale donò alla presente chiesa il legno della Santa Croce. Morì il 4 maggio 1370. Il nipote Guido pose". La storia della venerata Reliquia, munita di tutte le autentiche, è stata ricostruita mirabilmente ricostruita da Giuseppe Papetti da Ottobiano, autore di un’opera dal titolo: "L'insigne Reliquia della Santa Croce in San Michele di Lomello", pubblicata nel 1982.

lunedì 17 dicembre 2007

Bozzetti "medievali"


Si avvicina il compleanno di un lomellese illustre...
Opicino de Canistris nacque a Lomello la vigilia di Natale del 1296. Nel 1303 iniziò la scuola, ma di mala voglia, mostrando interesse soltanto per il disegno. Andò per qualche tempo a Bassignana a lavorare come esattore dei pedaggi presso un ponte sul Po, poi si trasferì a Pavia, al servizio della famiglia Langosco, di parte guelfa. Successivamente si dedicò al canto, a pratiche mediche, alla politica ed alle "scienze divine". Divenuto prete, il 30 marzo 1320 Opicino celebrò la prima messa. Nel 1335 fu chiamato ad Avignone, alla corte di Papa Giovanni XXII. Qui lavorò come miniaturista e scrisse il Liber de laudibus Civitatis Ticinensis, un libello considerato la prima guida turistica della città di Pavia, con la descrizione dei suoi monumenti, delle feste, delle tradizioni celtiche e longobarde. Lo scopo dell'opera era quello di convincere il Papa a revocare l'interdetto che gravava sulla città, governata dai ghibellini dopo la sconfitta dei Langosco. Oltre all'opera summenzionata, Opicino scrisse altri testi, tra cui il De praeminentia spiritualis imperii, un trattato politico, e la Descriptio universi coelestis. Opicino stese la sua autobiografia, in forma di canestro (una chiara allusione al suo nome), su due codici (cod. vaticano palatino n.1993 e cod. vaticano palatino n.6435) studiati nel 1927 dal mons. prof. Faustino Gianani. In centinaia di pergamene sono raffigurate mappe del mar Mediterraneo e dell'Europa Meridionale, mappamondi ricchi di figure allegoriche e simboli astrologici, santi, monaci e Madonne. Fra i disegni spicca un grande canestro decorato con la scritta "Tra le spire di questo canestro è celato il mio nome". Vi è anche l'indicazione dei fatti salienti della vita di Opicino e delle sue visioni mistiche.
Per seicento anni il de Canistris fu chiamato “l'anonimo ticinese”, e solo dopo gli studi del Gianani è stato identificato nel poliedrico prete lomellese.
Il disegno nel riquadro, effettuato sulla base di uno schizzo di Opicino, mostra, seppur con errori di prospettiva (presenti anche nell'originale), monumenti di Pavia oggi scomparsi: la torre civica, crollata nel 1989, e le cattedrali "gemelle" di Santo Stefano e Santa Maria del Popolo, abbattute alla fine del '400 per costruire l'attuale duomo.

martedì 16 ottobre 2007

Dalla tesi di laurea del nostro vice-presidente...

DETTAGLI ARTISTICI DI SANTA MARIA

Nelle foto:
la facciata del transetto di Santa Maria Maggiore (prospetto Sud) ed un elemento decorativo rinvenuto all'interno, vicino alla porta, come indicato dalla freccia rossa qui a lato.
I lavori di ricerca e le fotografie sono di Valeria Cecchetto, autrice della tesi di laurea Santa Maria Maggiore di Lomello (Pavia). Analisi evolutiva e strutturale, discussa nel settembre 2004 presso L'Università del Piemonte Orientale (VC).
Uno stralcio della tesi è stato pubblicato in "Lomellina romanica". Primo censimento sulle emergenze romaniche presenti nel territorio lomellino", a cura di Italia Nostra, Sezione Lomellina, Archivio Lomellino n. 13, 2005.

giovedì 16 agosto 2007

Lomello: chiese sconsacrate

San Rocco
(foto di
R. Bassi)

La fondazione dell’edificio si fa risalire al 1524. Secondo la tradizione, gli abitanti di Lomello, al fine di scongiurare il morbo della peste, fecero un voto alla Vergine, costruendo un oratorio intitolato a San Rocco. All’interno aveva sede la Congregazione del Santissimo Sacramento, meglio nota come congregazione di San Rocco. La confraternita era laica e non godeva di rendite e benefici ecclesiastici. I principali proventi derivavano infatti dalle offerte della popolazione e degli associati. Tra le principali finalità vi erano quelle di officiare solennemente le principali festività religiose e di accompagnare, in modo degno e dignitoso, i confratelli durante il loro ultimo viaggio terreno.
L’oratorio si compone di due distinte parti, il primo ambiente, in forma rettangolare con volta a botte, è frutto di un ampliamento realizzato immediatamente dopo il 1630, mentre la parte più antica, l’odierno coro, si fa risalire al XVI secolo. La facciata, scandita in tre spazi da paraste, è completata da un timpano nella parte superiore. Un rosone e due finestre rettangolari illuminano l’interno. Anticamente decorazioni ad affresco raffiguranti la Vergine, San Rocco ed il compatrono San Sebastiano dovevano arricchire la superficie. Sul lato nord della chiesa si eleva la torre campanaria , costruita sopraelevando un tratto dell’antico oratorio cinquecentesco. In considerazione delle dimensioni del campanile la struttura fu presumibilmente rialzata in relazione all’ampliamento dell’edificio nel 1630. Sconsacrata negli anni '70 del secolo scorso, la chiesa di San Rocco è ora usata come sede espositiva.
Il santo. Le notizie su San Rocco sono scarse ed imprecise. Nato in Francia intorno alla metà del XVI secolo, Rocco viaggiò per tutta Europa dedicandosi alla cura degli appestati; colpito lui stesso dal morbo e miracolosamente guarito, il santo è generalmente raffigurato nell’atto di mostrare una piaga sulla coscia.
Le vicende del santo pellegrino sono state ricostruiste da Gian Franco e Tina Magenta, storici locali, nel loro pregevole saggio San Rocco e Lomello, edito da tipolitografia Artigiana (Vigevano) nel 2007.
Una vita immaginaria di San Rocco è stata raccontata dallo
scrittore pavese Mino Milani, nell’opera La guerra sia con me, edita da Mursia nel 2005.

sabato 2 giugno 2007

Due racconti storici di G. Ceriana

I RAGAZZI DI CAYRE
copyright 2010 GIANLUCA CERIANA
1.


Il pomeriggio era stato caldo a conferma che il tranquillizzante ciclo annuale delle stagioni aveva fatto anche questa volta il proprio corso.
Rapidamente il tepore primaverile aveva fatto dimenticare il gelido inverno terminato da non molto.
I bambini avevano quasi raggiunto la sommità di un dosso naturale, oltre al bosco di querce che avevano appena attraversato e che già iniziava a risvegliarsi in previsione della sera. Le civette facevano sentire il loro fastidioso verso, mentre i gufi ancora dormivano e si sarebbero involati più tardi. Le famiglie dei pipistrelli riposavano a testa in giù nelle cavità degli alberi o appesi ai rami più riparati.
Bastiano, il più grande dei due, aveva compiuto tredici anni il giorno dopo la Pasqua. Era stata la ricorrenza di compleanno più brutta che ricordasse.
Per il giorno della Risurrezione del Signore, avevano ricevuto dei piccoli doni quali frutta secca e due piccole croci di legno da parte dei monaci e il giorno dopo invece nulla con grande delusione del ragazzo.
Era magro e secco, d’altronde come il fratellino.
“ Tommaso! Sbrigati, vieni su….”
Il bambino di nove anni arrancava sull’altura scivolando sulla terra umida e aggrappandosi ai ciuffi d’erba e ai pochi arbusti che la ricoprivano in parte.
Finalmente raggiunsero la cima e Bastiano fu svelto ad afferrare il fratello prima che facesse un capitombolo dall’altro lato del dosso. Da quella posizione dominante, con il sole ormai a ponente, poterono vedere il favoloso spettacolo che si manifestava davanti ai loro occhi.
L’accampamento era immenso e terminava all’orizzonte nei pressi del fiume Padus utilizzato per i rifornimenti d’acqua e quale confine naturale a protezione dello stesso. Poco prima del grande corso d’acqua vi erano i recinti per i cavalli ed i muli. Sul lato ad est, decine di carri da trasporto venivano svuotati da uomini solerti e nerboruti. Poi, un susseguirsi di centinaia di tende rettangolari grigie ed anonime che ospitavano i soldati.
Lo stato maggiore abitava invece una ventina di grandi tende a padiglioni sorrette da pali con pareti interne damascate e coperte di arazzi. Il ricco arredo era completato dal letto, da casse per i vestiti, lanterne, armi, tappeti e candele.
Sulle tende garrivano i vessilli imperiali con lo stemma d’oro ai tre leoni neri dell’Imperatore.
Il grande bivacco era completato da altre tende che ospitavano le cucine da campo e fungevano da deposito per i materiali. Inoltre si vedevano dappertutto strutture porta armi con armature, scudi di legno rinforzato a punta per i cavalieri, spade e lance, bracieri già accesi, panche e tavoli in legno preparati per l’imminente cena, bauli per il trasporto dei materiali, casse contenenti stoviglieria in legno, in terracotta e ferro, strumenti di tortura. Il campo era circondato e difeso dagli armati, organizzati in pattuglie che continuavano a spostarsi a rotazione senza mai lasciare sguarnito nemmeno un punto d’accesso all’accampa- mento.
I due ragazzini si misero comodi a pancia sotto e sgranarono gli occhi per non perdere nulla di ciò a cui stavano assistendo.



2.




Gisella si sentiva a pezzi, le dolevano la schiena e le braccia.
Per tutta la giornata, insieme ad Odilia e alle altre donne del podere aveva rastrellato il campo per raccogliere il fieno e la paglia, insieme avevano preparato e legato i covoni che erano stati poi caricati sui carri che ora precedevano il rientro dei contadini verso casa nella tranquillità della campagna.
Tutti però sapevano che avrebbe potuto trattarsi di una pace di breve durata dato che vivevano un periodo e in una zona di tensioni: la città di Pavia si opponeva da tempo a Tortona ad ovest, aveva battuto e scacciato i conti di Laumellum dieci anni prima ed era sempre pronta a scontrarsi ad est con Milano. La Laumella1 era proprio nel mezzo ed ogni volta ne subiva le conseguenze con scorrerie e saccheggi da una parte e dall’altra.
Nonostante il segreto timore lavoravano tranquilli perché il padrone, un nobile di Langosco al quale un diploma imperiale aveva assegnato in dono il podere ed i terreni circostanti, era sempre lontano per affari. Aveva assegnato l’amministrazione delle sue proprietà ad un cugino di Cayre che però non frequentava il podere se non una volta al mese a pretendere quanto dovutogli. Presto arrivava e presto se ne andava, lasciando i contadini un po’ più poveri ma per fortuna senza fare altri danni.
Gisella assomigliava ai suoi due fratelli: era alta e snella, aveva i capelli color del rame come Tommaso e gli stessi occhi verdi di Bastiano. Loro tre abitavano in una casupola ai margini di un rivo, non lontano dalla cassina che ospitava la maggior parte dei lavoranti; la piccola costruzione in legno era stata rinforzata alla base da grosse pietre per dare maggiore stabilità. L’interno era composto da un unico locale con il focolare centrale ed una sola finestra coperta da un tendaggio e chiusa di notte da una persiana di legno sprangata dall’interno. Lo spartano arredamento era composto da un letto fatto da un grosso sacco riempito di paglia poggiato su delle assi di legno per isolarlo dal pavimento - delle tende intorno al giaciglio dividevano l’ambiente – da un cassone per i vestiti, alcune mensole con contenitori di legno per i cereali, funghi e frutta secca, del pane avvolto in un panno.
Poche pentole e stoviglie erano posate sul piccolo tavolo sotto la finestra.
A fianco della modesta abitazione un piccolo recinto ospitava due capre che fornivano latte e formaggio, inoltre nel bosco poco distante in autunno raccoglievano le castagne che venivano poi essiccate e consumate in inverno e primavera, oltre a bacche e frutta selvatica.
Sognava già il momento in cui, portata in casa l’acqua con l’aiuto del secchio appeso ad un gancio sulla parete posteriore, si sarebbe liberata delle brache e della tunica per un bagno rinfrescante e per indossare l’abito pulito che usava quando non lavorava.
Oltrepassato l’ingresso della cascina e salutata l’amica, ad una cinquantina di passi dalla capanna che vedeva davanti a sé, udì i guaiti di Pulce.
“ Povero Pulce “ disse ad alta voce.
“ Quei due piccoli briganti! Ti hanno chiuso in casa, vuole dire che ne stanno facendo una delle loro!”
L’ultima volta che Gisella aveva dovuto liberare il cagnolino dalla temporanea prigionia era stato quando i fratelli si erano messi in testa di rubare del miele da una cavità d’albero nel bosco per poi tornare di corsa gementi e pieni di punture d’ape che per loro fortuna aveva potuto curare grazie a fratello Bernardo che aveva fatto avere loro un medicamento di fra Gabriolo.
“ Si prepara con tre parti di malva fresca che si fanno bollire con quattro parti di burro“ gli aveva dato istruzioni il monaco", la bruma saliva dal terreno e nascondeva alla vista le caviglie. Arrivata ai margini del campo, per fortuna l’apparire di un tiepido sole dissolse la nebbia e permise alla ragazza di vedere in lontananza le macchie bianche delle tonache dei frati intenti al lavoro.
“ Quei buoni frati…”, si disse la giovane avvicinandosi nel vederli. Li conosceva bene.
Simone, sui cinquant’anni, era piccolo e tarchiato: era già sudato, le maniche della tonaca arrotolate sugli avambracci e la parte inferiore sollevata in parte e infilata nella cintura alla vita. Beltramino e Bernardo avevano circa quarant’anni e parevano meno stanchi, avevano quasi la stessa corporatura snella, ma quest’ultimo sembrava più magro perché più alto del confratello. Da quando erano arrivati nella zona insediati nel monastero di Mediamnes si erano da subito dati un gran daffare per aiutare loro contadini a vivere meglio. Avevano dapprima suggerito nuovi metodi per far fruttare meglio i campi, quale la rotazione triennale delle colture. Il terreno veniva diviso in tre parti: sulla prima si seminavano frumento e segale, sulla seconda orzo oppure legumi e piselli; la terza era lasciata a riposo. Ciò aveva permesso più volte di recuperare un cattivo raccolto primaverile con quello buono in estate.
Avevano poi iniziato con estrema fatica a drenare e prosciugare i numerosissimi terreni acquitrinosi della zona, smaltendo le acque in eccesso grazie ad una serie di canali per l’irrigazione dei campi.
Proprio ora stavano lavorando a creare quello che chiamavano “prato marcio”: veniva fatta scorrere dell’acqua per sommergere l’intero terreno. L’erba che vi sarebbe cresciuta non avrebbe in questo modo patito gli abbassamenti della temperatura durante l’inverno e quindi non sarebbe seccata continuando a vegetare, permettendo un alto numero di tagli con benefici effetti per gli allevamenti delle vacche da latte.
L’acqua utilizzata per ricoprire la marcita proveniva dai fontanili, depressioni del terreno con affioramenti di acque sotterranee. Per scovare le fonti, i tre monaci si erano avvalsi più di una volta di Brunilda, una donna solitaria e misteriosa che viveva nei pressi del fiume. Avevano sempre agito di nascosto dal priore che osteggiava la donna considerata una veggente e perché credeva che questa fosse avvezza alle pratiche magiche. In verità Brunilda era semplicemente una donna saggia con la straordinaria dote di trovare l’acqua e Bernardo stesso aveva assistito spesso alle sue ricerche. Tenendo fra le mani un rametto di nocciolo, quando la fonte d’acqua veniva a trovarsi proprio sotto i piedi della rabdomante, il ramo si piegava verso il basso e lo scavo successivo rivelava sempre la presenza del prezioso liquido.
Bernardo era il monaco che Gisella conosceva meglio.
Al monastero si occupava della scuola dei novizi e le aveva insegnato a leggere il latino prestandogli, di nascosto dal priore, anche un volumetto della Ilias di Omero.
Difatti una volta a settimana, quando i contadini andavano a Mediamnes per vendere i loro prodotti al mercato, Gisella, i fratelli ed Odilia li accompagnavano e venivano lasciati al monastero per trascorrere l’intera mattinata a lezione da Bernardo. In effetti la sola ragazza e il fratello più grande frequentavano la schola, dato che Odilia era sempre in cucina e Tommaso passava invece la maggior parte del tempo nell’orto dell’infermeria con Gabriolo. Ne era diventato praticamente l’assistente e lo aiutava a piantare e potare, raccogliere e far seccare le erbe per la preparazione dei medicamenti. Dal buon frate aveva appreso anche i nomi di piante e fiori e quando poi scorrazzava per il bosco con Gisella ed il fratello, li faceva fermare in ogni dove per indicare loro qui una immensa quercus, là un cespuglio di crataegus, più avanti un larix.
Le lezioni di Bernardo erano divertenti ed interessanti: egli spesso sollecitava i suoi alunni alla discussione e ciò aveva giovato in particolar modo proprio a Gisella, la quale era passata rapidamente dalla iniziale timidezza ad una consapevolezza della propria capacità ed intelligenza, con grande soddisfazione del maestro. Insieme discutevano di letteratura, la ragazza amava gli scritti di Erodoto e di filosofia.
I ragazzi, ospitati a pranzo dei monaci, sorbivano la zuppa in silenzio mentre un religioso a turno leggeva per tutti passi della Sacra Scrittura. Orfani fin da piccoli, sentivano i monaci come la loro famiglia.
“ Gisella, piccola mia! “ sbottò Simone nel vederla.
“ Sì…piccola era…quando nacque, mio caro Simone “ gli rispose Beltramino canzonandolo.
“ Il Signore l’ha fatta poi più alta di te!”
Bernardo si unì alle risate dei confratelli.
“ Fratello Bernardo, devo parlarvi…”
La ragazza pareva molto preoccupata, così Bernardo propose una pausa, subito accettata dagli altri. Tutti si sedettero sotto le fronde fiorite di un albero ai margini del terreno, lieti di consumare il pane portato dalla fanciulla.
Gisella raccontò loro tutto in un culmine di tensione che fece smettere di masticare anche Simone quando la ragazza narrò l’incontro con l’ufficiale in pattugliamento.
Fu Bernardo, dopo pochi istanti di silenzio seguiti alla lunga relazione di Gisella, a spezzare il pathos.
“ Mi stai dicendo che avete addirittura visto l’Imperatore. Dunque è l’esercito che torna da Terdona, chissà che cosa sarà mai accaduto…”
Non voleva spaventarla ulteriormente raccontandole che qualche settimana prima i monaci avevano ospitato in convento dei fuggiaschi che scappavano dalla città assediata.
“ Ci ha visto, ne sono sicura! Avrebbe potuto allungare la mano e afferrarci o richiamare i compagni…ma non lo ha fatto! “
Gisella era rimasta spaventata e sorpresa nello stesso tempo dal gesto dell’ufficiale.
Bernardo le teneva le mani per calmarla ed intanto rifletteva sul racconto concitato della giovane. Anch’egli non riusciva a comprendere fino in fondo l’atteggiamento del soldato. Probabilmente si era preso pietà dei bambini, ma fra loro vi era anche la giovane….forse proprio per il suo grado che di solito denotava anche un uomo di cultura….oppure….
Subito pregò in silenzio ringraziando il Signore che non fosse toccato invece ai due soldati scoprire Gisella e i fratelli!
Una volta rinfrancata la ragazza, la congedò con gentilezza per tornare al lavoro insieme ai compagni.
“ Non preoccuparti e tieni tranquilli Bastiano e Tommaso. Per un poco è meglio rimangano in cascina e non si mettano a gironzolare da soli. Ed anche tu stai serena…” l’abbracciò.
“ Veglieremo su di voi. “
Gisella salutò affettuosamente Beltramino e Simone e raggiunse gli altri lavoranti in campo non distante.



Il sole ormai splendeva in pienezza.
Lontano, oltre una roggia, su uno dei terreni del podere, un contadino conduceva pigramente per il giogo appoggiato alle corna due enormi buoi e tracciava con l’aratro un solco diritto e profondo.

4.

Un sole già caldo per la stagione aveva rallegrato la pianura nei giorni successivi e il protrarsi delle ore di luce permetteva finalmente, dopo il lungo inverno, di passare più tempo all’aria aperta.
Le paludi contornate da fitti canneti si popolavano di folaghe e gallinelle d’acqua. I fieri aironi gioivano della nascita dei loro piccoli ed i grossi nidi di rami e canne intrecciate erano un continuo viavai degli adulti che portavano cibo ai pulcini.
I salici piangenti erano in piena fioritura, le fronde erano coperte di infiorescenze verdastre mentre gli ontani neri si riflettevano nelle acque tiepide e fangose.
Il falco di palude lanciava il suo fischio gettandosi sulla preda inerme.
Il pranzo domenicale in cascina era una festa per tutti. Il cascinale non era molto grande, ospitava in tutto una quindicina di persone, le due stalle avevano poche vacche per la produzione di latte e burro e tre coppie di buoi per l’aratura, in cortile oche e galline razzolavano quietamente. Era rimasto uno solo dei due pavoni originari poiché il secondo, incautamente allontanatosi oltre il cortile qualche tempo prima, era stato sicuramente preda di qualche ladro. Una ampia conigliera in legno con i conigli, infine un recinto con le capre.
Il giorno del riposo, domenica, andava festeggiato. Per qualche ora si sarebbero accantonate le preoccupazioni quotidiane e ci si sarebbe riposati delle fatiche di tutta la settimana. Tutti erano spensierati e felici di mangiare meglio e più abbondantemente che durante le dure giornate di lavoro.
La tavola era stata preparata sotto un pergolato riparato dal vento.
Il semplice tavolo era fatto con due larghe assi di legno appoggiate a cavalletti con le panche intorno; vi erano posati piatti di legno scavati al centro per contenere il cibo, a fianco di ciascuno un cucchiaio e un coltello per tagliare la carne a pezzi oltre ad un bicchiere di legno.
I contadini avevano invitato al loro convito Bernardo, Gabriolo, Simone e Brunilda, la rabdomante.
Quasi tutti avevano indossato gli unici abiti non da lavoro che avevano. Gisella aveva fatto vestire i fratelli con dei calzoni di maglia attillati che loro odiavano; erano rattoppati ma almeno puliti, portati sotto delle tuniche leggere. La ragazza era abbigliata invece con una veste ad un solo pezzo, stretta in alto ma allargata in fondo, con una scollatura rotonda e maniche lunghe, stretta in vita da una cintura di stoffa. Amava molto il suo abito.
Era un regalo di una nobildonna che Gisella aveva aiutato, insieme ai fratelli, quando il carro sul quale viaggiava in compagnia di un servitore, aveva subito la rottura di una ruota nei pressi del campo dove stavano lavorando. Gisella era tornata di corsa al podere, aveva richiamato il contadino addetto alla manutenzione dei carri che aveva prontamente rimesso in funzione il carretto. La donna, il giorno seguente, aveva fatto tornare il suo servitore alla cascina con due sacchi di farina per il lavorante e l’abito per lei. I capelli color del rame erano sciolti invece delle consuete trecce, adornati con fiori mentre le donne più anziane li tenevano nascosti entro cuffiette o coperti da veli.
Furono chiamati a mangiare. Gisella si sistemò accanto ad Odilia che indossava come lei una veste e si era acconciata con una lunga treccia.
Il buon cibo li aspettava: vi sarebbero stati due polli arrosto, una gallina in umido, formaggio di capra, pane e focacce, un grande vassoio con l’insalata di cipolle, acqua e birra leggera e del vino portato dai monaci.
Insomma, una semplice ma accogliente tavolata di amici.
Il pranzo fu interrotto dalle grida dei bambini che, usciti a giocare nel campo antistante l’ingresso del podere, si precipitarono all’interno della cascina annunciando l’arrivo di quattro soldati a cavallo. Subito tutti si alzarono da tavola, le donne in preda al panico corsero a mettere al riparo i bimbi nel fienile, mentre gli uomini si facevano coraggio.
Lasciati di guardia al portone gli altri tre, l’ufficiale entrò con l’animale tenuto al passo. La cavalcatura aveva una particolare sella alta contro la quale in battaglia i soldati si appoggiavano per lanciare con stabilità le lance e maneggiare la spada.
Scese da cavallo a pochi passi dal gruppetto che gli si faceva incontro con atteggiamento guardingo.
I monaci e i contadini, Gisella con loro, accolsero il soldato invitandolo alla loro tavola insieme ai suoi uomini, ma l’uomo garbatamente rifiutò.
“ Sono qui per conto dell’Impero! “, disse in volgare con accento germanico, parlando con autorità ma con modi gentili.
“ Devo prelevare i viveri che spettano all’esercito che attraversa i propri territori. Provvedete dunque a fornirmi subito dieci sacchi di farina, venti…”
Si ammutolì all’improvviso, vedendo davanti a sé, subito dietro i tre monaci e i più anziani fra i contadini, la ragazza che aveva visto nascosta nei cespugli qualche giorno prima.
Era senza i bambini che stringeva a sé tremanti in quei momenti, indossava ora un abito femminile mentre egli l’aveva vista abbigliata come un contadino ma non poteva non riconoscere quegli occhi verdi, quello sguardo impaurito ma fiero.
Non poteva sbagliarsi: era lei.
Prima che potesse continuare, Bernardo, che aveva notato lo sguardo del soldato posarsi su Gisella, delegato dagli altri a trattare con lo straniero, gli si fece accanto scostandolo un poco dal resto del gruppo.
In perfetto theodiscus3, il monaco gli disse:
“ Vedo che hai occhi che riflettono un cuore buono, e non vuoi farci del male. Adesso ti daremo quanto chiedi. Tu, se avrai bisogno di qualsiasi cosa vieni al monastero di Mediamnes e mostra questa a chi ti accoglierà alla porta…”
Gli mise fra le mani una minuscola croce di legno.
“ E cerca di Bernardo.”
Il soldato guardò per un lungo istante in silenzio l’oggetto nelle sue mani ancora tenute da quelle del monaco, poi richiese ad alta voce che gli venissero consegnati un sacco di farina e tre polli già spiumati, oltre a due conigli vivi che subito il frate mandò a prendere. Assicurata la merce alla sella, montò a cavallo lanciando uno sguardo al gruppetto di villici ancora riunito in attesa che lui se ne andasse.
Non scorse più la ragazza e voltatosi, raggiunse gli altri al portone.
“ Tutto qui?…” commentò uno dei soldati osservando il magro bottino.
“ Quei mentecatti non hanno altro, muoviamoci! “ replicò il giovane mettendo al galoppo la sua cavalcatura, subito seguito dall’esiguo drappello.




5.




Bernardo si era appena coricato con ancora in testa la benedizione del compieta:
"il Signore ci conceda una notte serena ed un riposo tranquillo",
quando il silenzio fu interrotto da un nervoso bussare alla sua porta.
“ Bernardo! “
“ Bernardo….svegliati! “ era il frate portinario.
Il monaco raggiunse la porta nell’oscurità, aprendola.
“ Salve Baliolo, che succede? “
“ Caro amico, una visita per te.”
“ A quest’ora? Chi ti ha detto di essere? “
“ Pare un pellegrino. Ha pronunziato solo il tuo nome e mi ha dato questa…” aggiunse il portinario mostrandogli la piccola croce di legno che il frate aveva donato in cascina al soldato di Barbarossa.
“ Andiamo! “
Bernardo seguì velocemente il confratello per il cortile sino al parlatorio della foresteria. Per sostenere un colloquio con un ospite avrebbero dovuto chiedere prima il permesso al priore, ma per fortuna lo stesso era da giorni fuori convento per una visita pastorale a Laumellum.
Una volta entrato, richiuse la porta.
Un uomo che indossava degli abiti da contadino stava in piedi vicino all’unica piccola finestra del locale e gli volgeva le spalle.
Bernardo non riconobbe, come si aspettava, la figura che aveva di fronte, avendo veduto il soldato della cascina una sola volta e con indosso l’elegante divisa imperiale e per un istante temette di essere stato avventato. Si era fidato del suo istinto la domenica precedente, quando aveva creduto di aver letto nel cuore e nell’anima del giovane. Se il ragazzo avesse invece denunciato l’atteggiamento del monaco ai suoi superiori?
La figura incappucciata che ora gli volgeva le spalle avrebbe potuto essere un emissario imperiale venuto per arrestarlo.
Per fortuna i suoi timori ebbero subito fine poiché lo straniero, voltatosi nel sentire qualcuno entrare e abbassato il cappuccio, si rivelò essere chi si aspettava.
“ Salute fratello Bernardo.”
“ Salute a te figliolo….non sono sorpreso di vederti. “
Bernardo fece accomodare il giovane su una panca proprio sotto la finestrella nel muro. Baliolo bussò piano alla porta, allungando a Bernardo dell’acqua e del pane dolce che questi prontamente offrì al ragazzo.
“ Mi chiamo Lars. “ esordì il soldato prontamente.
“ Come avete compreso siamo accampati con l’esercito imperiale presso il Padus. Veniamo da Terdona e stiamo rientrando a Papia4.”
Si accorge all’improvviso di essersi espresso nella sua lingua madre.
“ Scusate padre, ma ricordo che mi avevate parlato in theodiscus: dove l’avete appreso? “
Il monaco gli raccontò di averlo imparato una decina di anni prima presso il monastero di San Vito, sito alla destra dell'Adda, sulla antica strada romana che da Cremona portava a Laus Pompeia. Il priore di quell’abbazia era originario della Rezia.
Il giovane veniva da Goslar e rimasto orfano, era stato allevato dagli zii alleati della casata degli Hohenstaufen. Raccontò che agli inizi dell’anno era giunto in Italia con le truppe del Barbarossa. Dopo la lunga sosta a Roncaglia erano arrivati nei pressi di Terdona venendo da Nord e passando fra Mediolanum e Novaria.
Si era in pieno inverno e le popolazioni della pianura erano fuggite prima dell’arrivo dell’esercito con vettovaglie e bestiame, così che i soldati avevano patito fame e freddo nelle lunghe giornate di pioggia e gelo.
“ Alla fine, dopo un assedio durato sessanta giorni, prendemmo la città per sete. L’Imperatore permise ai cittadini e ai loro alleati milanesi di lasciare la città senza colpirli e aveva rilasciato delle garanzie che non venisse distrutta. “
Con amarezza, rivelò a Bernardo che invece, dopo la partenza di Federico, i pavesi la dettero completamente a fuoco e ne distrussero le mura.
Fece alfine una pausa bevendo un poco d’acqua.
“ Nel dirigerci verso Papia, gli ordini erano di attraversare queste terre velocemente quasi senza soste…”,
“ Ma poi i generali pavesi hanno deciso di radere al suolo anche Cayre.”
Bernardo scattò in piedi.
“ Ma sono territori dell’Imperatore! “
“ Sì, ma dopo Terdona le pressioni e il potere dei pavesi sembrano non poter essere contrastati nemmeno da Federico in persona! Può darsi che l’Imperatore decida anche stavolta di fare evacuare il borgo pacificamente, ma temo comunque le truppe mercenarie e i pavesi stessi che vorrebbero invece fare razzia. “
Lars, alzandosi, si volse per un attimo alla finestra per poi guardare fisso il monaco. Gli confidò che l’attacco al borgo era dato come imminente anche se non ancora definito nei dettagli.
“ Ho voluto avvisarvi padre, affinché possiate portare in salvo gli uomini e le donne della cascina e quei ragazzi….ho visto che fra di loro…”
“ Lo avevo capito dal tuo sguardo, quel giorno. “ replicò il monaco.
“ Sei tu ad avere visto Gisella e i suoi fratelli nascosti e non li hai catturati. “
“ Grazie per averlo fatto.” continuò prendendo le mani del giovane e stringendole nelle sue.
“ Non avevano fatto nulla di male ed erano spaventati. Nello sguardo di…Gisella ho veduto che nonostante il timore, avrebbe lottato per difendere i fratelli. “
Poi, offrì il suo aiuto.
“ No! “, si oppose prontamente il monaco.
“ Hai già rischiato la tua vita venendo ad avvisarci, non devi osare oltre. “
“ E’ un rischio che accetto, padre. Ho deciso comunque di lasciare l’esercito perché sono vessato dagli ufficiali ostili all’Imperatore …”
Discussero allora su cosa fare. Alla fine decisero che avrebbero agito nella notte di lì a due giorni. Il giovane si sarebbe occupato di scortarli per la strada, mentre Bernardo promise di occuparsi di tutto il resto sapendo di contare sull’aiuto dei confratelli e dell’amica rabdomante.
Si congedarono.
“ Benedicite figliolo. “
“ A presto fratello Bernardo. “

Lars lasciò il monastero quando ormai albeggiava, mentre il monaco andò subito a cercare Gabriolo.
Chiesero il permesso di saltare le lodi mattutine per parlare di quanto avrebbero dovuto fare.
Il tempo stringeva e dovevano agire in fretta.





6.




La stessa mattina, poche ore dopo l’incontro con Lars, Bernardo lasciò il convento con un carro tirato da un cavallo e condotto da Gabriolo che doveva recarsi a Cayre per curare un malato.
Si fece lasciare nei pressi di un bosco dietro il quale vi era il fiume.
“ Buona fortuna, amico mio “ gli augurò il frate farmacista.
“ Non preoccuparti, lo sai che possiamo contare su Brunilda. Attendimi al tuo ritorno da Cayre all’imbocco della strada maestra. “
Bernardo attese che il carro si allontanasse, attraversò il boschetto che arrivava fino alla sponda del fiume e discese sino a riva.
Estrasse da dietro un folto cespuglio una piccola imbarcazione coperta da un telo e nascosta dal fogliame, la tirò in acqua e attraversò il fiume in un punto che ben conosceva, ove la corrente non era forte.
Più avanti vi era la chiatta che trasportava persone e merci da una parte all’altra del Padus, ma sicuramente sarebbe stata pattugliata dai soldati imperiali e ciò che doveva fare andava fatto oggi stesso e senza badare ai pericoli.
La barca passò non lontano dai banchi di sabbia che affioravano dalle acque, simili a piccole isole desertiche e cespugliose.
La rabdomante abitava sulla riva opposta di una ramificazione del Padus, nascosta per un lungo tratto dal letto principale del fiume da fitti boschi.
Nei pressi sorgeva un molino, che sfruttava così la portata modesta delle acque di quel canale secondario.
Si trattava di un mulino orizzontale in cui la forza dell'acqua, colpendo una semplice ruota a pale, posta orizzontalmente in linea con il flusso della corrente, faceva ruotare la pietra della macina che era collegata direttamente all'asse di rotazione attraverso un ingranaggio.
L’edificio privato apparteneva ad un aristocratico di Cayre che chiedeva un balzello ai contadini per l’utilizzo, ed i suoi sgherri facevano razzia nelle cascine sequestrando le macine a mano dei poveretti per costringerli ad usare il mulino a pagamento. Più volte i monaci avevano cercato una mediazione anche pagando di tasca loro la tassa purché i contadini potessero portare i cereali a macinare. Niente da fare.
Si erano così procurati delle nuove macine a mano che avevano consegnato in cascina raccomandando di tenerle ben nascoste.
Appena a riva, trascinò la barca sulla spiaggia e subito gli si fece incontro il cane della donna che l’aveva fiutato fin quando ancora si trovava in mezzo al fiume.
La rabdomante abitava da sola con il grosso cane in una capanna di legno, dietro la quale teneva un piccolo orto ben curato di erbe medicamentose.
Bernardo sbirciò dalla porta socchiusa, stava per aggirare la capanna in direzione del piccolo orto dove immaginava potesse trovarsi la donna, quando se la trovò alle spalle senza nemmeno averla sentita.
“ Una volta o l’altra mi farete morire dallo spavento! “ gli disse il frate non appena si voltò tendendo le mani per salutarla. L’amica, che il monaco sapeva non vecchia, era di statura media e vestiva una semplice tunica. I suoi lunghi capelli corvini non erano ancora striati di bianco.
“ E voi, Bernardo, come fra l’altro nessuno, riuscirete ad arrivare fin qui senza che Bomilcare mi abbia già avvertito della vostra presenza. “
“ Ma entrate…” replicò, precedendolo all’interno della casa.
La capanna aveva due locali divisi da una porta, all’ingresso vi era un tavolo con due piccole panche, appese alle travi del soffitto pendevano delle erbe tenute a seccare e parecchi mestoli. Il pavimento di terra battuta era ricoperto di paglia; presso l’unica finestra un braciere per cucinare e scaldare l’ambiente. Oltre la porta aperta della camera da letto si intravedeva una cassapanca che Bernardo sapeva contenere libri, rotoli di papiro e sacchetti di linum usatissum ove Brunilda teneva le preziose erbe medicinali.
La donna offrì del pesce essiccato che Bernardo gentilmente rifiutò avendo già fatto colazione e mentre invece lei ne prendeva, il monaco la mise al corrente della situazione. Lei avrebbe avvisato chi conosceva al borgo e poi li avrebbe raggiunti al podere da dove sarebbero partiti alla volta del monastero.
“ Sia fatta la volontà del fato “, si espresse alla fine del breve colloquio.
“ Anche se naturalmente possiamo fare la nostra parte per mutarlo…” terminò con un sorriso compiaciuto guardando Bernardo.
Si salutarono con un abbraccio; Brunilda diede all’amico un sacchetto di funghi secchi da portare via.
“ Vi ringrazio, anche a nome dei confratelli. “
Nel congedarsi all’ingresso della casupola, il monaco urtò un libro poggiato su di uno sgabello che cadendo si aprì. Era scritto in latino e Bernardo, raccogliendolo, ne intravide una breve frase: “Columbus (qui originem duxit a Pellestrellis Placentinis, quae familia inter alias nobilis est: natus Cugureo, quod castrum est in territorio Genuensi) tam insigne factum effecit…5
Avrebbe voluto chiedere alla rabdomante chi mai fosse quel Colombo del quale mai aveva letto, ma aveva fretta e uscì di corsa.

Nemmeno un’ora dopo, il monaco saliva nuovamente sul carro condotto da Gabriolo e subito si diressero in cascina per mettere al corrente i contadini di quanto sarebbe accaduto.





7.




Com’erano d’accordo, il piano di fuga fu attuato la prima notte di luna nuova.
Da quando i monaci avevano avvisato l’esigua popolazione del podere, la giornata precedente era passata fra i preparativi febbrili della partenza. Quasi tutti avevano deciso di raggiungere i parenti in zona, solo Gisella ed i fratelli, Odilia e sua madre, gli unici a non avere nessun familiare, si sarebbero invece rifugiati nel monastero.
Una piccola carovana aveva lasciato la cascina nel pomeriggio: due carri guidati uno da Simone e l’altro da Beltramino si erano allontanati ad intervalli irregolari dirigendosi in direzioni diverse, portando in salvo gli altri abitanti del podere.
Bernardo e Lars, che si era presentato nuovamente in abiti da contadino ma armato, avevano preparato il carro coperto a quattro ruote tirato da due cavalli di cui uno quello del soldato. Sul largo sedile di guida presero posto il frate e il giovane, nel retro, sotto il tendone, i ragazzi e il loro cagnolino, l’amica di Gisella e la madre oltre a Brunilda.
Si portarono al seguito i loro unici averi: biancheria, qualche vestito, i pochi denari.
Avrebbero raggiunto il monastero indisturbati accedendovi da un passaggio segreto noto ai soli religiosi. L’ingresso della cavità sotterranea era ai margini dell’ultimo bosco che si trovava provenendo da Cayre oltre il grosso borgo di Mediamnes.
Procedettero tranquilli fino al villaggio, senza incontrare nessuno.
Avanzando verso il centro del borgo, le case divenivano più frequenti.
Prima di inoltrarsi in una strada lastricata, i due uomini della compagnia avevano rivestito di stracci le ruote del carro per evitare facesse troppo rumore. La via aveva su di un lato le costruzioni del tipo a schiera e di fronte si aprivano dei portici dove i mercanti esponevano le loro merci.
Gisella pensava che le sarebbe piaciuto vivere in una casa come quelle che vedeva. Molte avevano al piano terra le botteghe dei mercanti e i laboratori degli artigiani, le finestre chiuse da pesanti persiane di legno.
Sul retro le case avevano di solito uno stretto cortile occupato da una piccola stalla, un pollaio o una rimessa.
La ragazza ne immaginava l’interno: era entrata una volta sola in una di quelle case quando aveva accompagnato Matilde, la ricamatrice del podere, per consegnare una stoffa da riparare. La domestica le aveva fatte entrare in attesa della padrona. Dopo una breve rampa di scale, il primo piano era occupato dalla cucina e dal soggiorno con il soffitto di travature in legno dipinto. La signora era scesa da quello ancora superiore, ove vi erano le camere da letto. Nelle abitazioni della cascina, al contrario, le persone non disponevano di stanze private e tutti dormivano in una sola grande stanza. Gisella aveva sentito dire che nelle case dei ricchi le ancelle dormivano ai piedi del letto della padrona e i garzoni in un angolo della camera del padrone e resistette alla voglia di domandarlo alla giovane domestica che comunque, subito, li riaccompagnò di sotto una volta che furono pagate dalla padrona.
L’acqua di una fontana, posta alla fine del porticato e dove gli abitanti del rione si rifornivano, era l’unico rumore della notte.
Superarono la piazza principale dove ogni settimana i contadini vendevano i loro prodotti al mercato ed infilarono uno stretto vicolo maleodorante, a quell’ora della notte abitato solo da qualche randagio.
Alla fine dello stesso, arrivarono finalmente alla legnaia del convento, posta all’interno di un cortile protetto da un alto recinto.
Dietro, il bosco faceva da confine naturale al borgo.
Bernardo si guardò intorno prima di aprire il portone e subito il carretto scomparve all’interno. In fondo alla piccola corte, ben nascosta dietro una catasta di legna, si apriva la botola d’accesso alla galleria.

I passeggeri smontarono guidati dal monaco, mentre Lars si incaricò di portare i cavalli al riparo nella piccola stalla posta sempre all’interno della legnaia. Lì sarebbero rimasti al caldo e ben nutriti.
Entrarono nella galleria con i bagagli al seguito, subito Bernardo sbarrò la copertura della botola con un pesante catenaccio, poi precedette il piccolo gruppo tenendo avanti a sé una lucerna per illuminare la strada. La galleria era lunga un centinaio di passi e finiva con una porta di ferro che il frate aprì velocemente. Si ritrovarono in un locale buio e umido che appena illuminato dalla lucerna, si rivelò essere la cantina del convento.
Da lì salirono una scala che portò il gruppetto all’interno della foresteria del monastero, in una stanza nascosta e lontana dalle camerate per gli ospiti e i pellegrini.
“ Finalmente, siamo arrivati! “ disse Gisella sedendosi sulla lunga panca che occupava l’intera parete di fronte alla porta. Le parole della ragazza rinfrancarono l’intero gruppo, in particolar modo la madre di Odilia che sembrava molto provata dalla fuga notturna, tanto che diede sfogo alla tensione con un pianto liberatorio.
Mentre la figlia e Gisella l’abbracciarono, Bernardo le si sedette accanto.
“ Mia cara, è tutto finito! “
“ Siete stata molto coraggiosa, al pari di voi tutti. “ aggiunse guardando il resto del gruppo.
Il solo Lars, in piedi poco distante, rispose con un sorriso alle parole del monaco. Brunilda era seduta appoggiata alla parete tenendo fra le braccia Tommaso e Bastiano.
Si erano addormentati tutti e tre.


EPILOGO




Bernardo accompagnò i bambini e le donne in una zona tranquilla della foresteria, dove il frate maestro degli ospiti aveva preparato i letti.
“ Non vuoi riposarti? “ disse a Lars.
“ Grazie padre, ma preferisco continuare a muovermi. Non avete nulla da farmi fare? “.
“ Vai intanto in cucina e fatti dare qualcosa da mangiare, poi vedremo. “
Si allontanò e poi Bernardo lo vide tornare indietro.
“ Fratello Bernardo, volevo ringraziarvi…”
“ E’ a te che dobbiamo dire grazie, figliolo. “

Il monaco raggiunse i confratelli al Capitolo dove incontrò finalmente Simone e Beltramino, anch’essi stanchi ma felici.
“ Tutto bene. “ disse il più anziano dei due.
“ Anche da parte mia. “ gli sussurrò all’orecchio Beltramino.
“ Per compieta eravamo già rientrati e per la strada non abbiamo avuto problemi. “
Prima che si discutesse di un lavoro di ristrutturazione da farsi al tetto della chiesa, Bernardo riuscì a raccontare la sua avventura notturna ai due amici.
La mattinata trascorse tranquillamente con i monaci impegnati nel lavoro, gli altri a riposare in foresteria.
Lars tornò con il monaco stalliere alla legnaia a rifocillare e a strigliare i cavalli.
La campana dell' Angelus ricordò l'ora del pranzo. Bernardo e il giovane andarono ad avvisare le donne e i bambini e insieme raggiunsero il refettorio appena in tempo per assistere alla benedizione della mensa.
La sera, durante il momento di ricreazione dei monaci nel chiostro, dopo la cena, appresero che quello stesso giorno Barbarossa era entrato in Cayre.
Come già accaduto a Terdona, gli abitanti erano stati avvisati e lasciati liberi di andarsene; una volta abbandonato il borgo, i pavesi avevano distrutto la rocca e la parte fortificata del villaggio arrestando chi non aveva voluto lasciare le proprie case.
Quando Gabriolo raggiunse il gruppetto degli esuli della cascina, che parlavano fra di loro nei pressi del pozzo, già tutti avevano appreso la terribile notizia.
“ Cayre sta bruciando!! “
“ Preghiamo il Signore che nessuno sia stato oggetto di violenze.“ aggiunse accorato il frate infermiere.
“ Appena in tempo….non fossimo partiti questa notte…” sospirò Odilia.
“ Grazie ancora al nostro giovane Lars che ci ha avvisato del pericolo imminente. “ concluse Bernardo.



La lunga giornata volgeva al termine.
Bernardo era esausto e non vedeva l’ora di ritirarsi nella sua cella. Accompagnò gli amici del podere alla foresteria per la notte: i monaci li avrebbero ospitati fino al momento in cui l’esercito imperiale fosse stato ben lontano da Cayre.
Sperava col cuore che dopo quei tristi momenti, potesse iniziare un periodo di pace e tranquillità.
Mentre camminavano attraverso il cortile, il monaco chiudeva il piccolo gruppo e li osservava.
Subito dietro Bastiano e Tommaso che incitavano Pulce alla corsa, la saggia Brunilda discorreva con Odilia e la madre e silenziosamente ringraziò ancora una volta l’amica rabdomante per l’aiuto che aveva dato.
“ Di nulla, caro amico. “
Sentì nella mente la voce della donna prima che essa si voltasse sorridendogli.
Al solito.
Quante volte Bernardo l’aveva pregata di non farlo: Brunilda aveva letto i suoi pensieri.
Alle loro spalle venivano Gisella e Lars: la ragazza rideva di qualcosa che il giovane le aveva detto, mentre per la prima volta Bernardo vide il soldato arrossire.
Lasciato l’esercito, Lars avrebbe presto trovato lavoro presso il monastero: era colto e avrebbe potuto aiutare Bernardo con la scuola. Oppure avrebbe potuto proporsi come amministratore stabile nel podere dei nuovi amici che aveva conosciuto.


Notte.
Il monastero era avvolto dal silenzio della notte, il solo frinire dei grilli e delle cicale riempiva l’aria insieme al cupo verso del rospo.
Tranquilli, in foresteria, Gisella dormiva accanto ai fratelli, in un’altra stanza Odilia e sua madre sognavano il ritorno alla loro casa. Lars divideva uno stanzone con altri pellegrini che la mattina dopo avrebbero proseguito il loro viaggio verso Roma.
Bernardo era troppo stanco per chiudere occhio. Aveva riposato ben poco negli ultimi due giorni ma adesso non gli riusciva di prendere sonno. Disteso sul suo giaciglio guardava la luna dall’unica finestrella della sua cella, la mente finalmente libera dalle preoccupazioni dei giorni scorsi. Tutto era andato per il meglio ed era giunto alla conclusione che il futuro sarebbe stato senz’altro migliore.
Si girò su un fianco e dopo poco si addormentò.






1 Il primo nome della Lomellina appare su un diploma imperiale di Federico Barbarossa del 1098.

2 Maja, Maggio, il calendario iniziava con il mese di Marzo.
3 La lingua parlata nell’Impero, il tedesco antico.
4 L’antico nome di Pavia dato alla città dai Longobardi.
5 “ Colombo (che ha preso origine dai Pellestrelli di Piacenza, che è famiglia assai nobile: nacque a Cugureo, che è castello in territorio genovese) ha condotto a termine un'impresa tanto illustre…”



LOMELLINA, 41 d.C

.L’aria che entrava dalla finestra aperta era fresca, quasi pungente, il cielo invece era opaco ed appannato. Il cornicen, il suonatore di corno, aveva appena dato il segnale dell’hora secunda.
Gneo Cerdico Vespillo non riusciva a credere a quello che aveva appena letto.
Aveva scorso con rapidità crescente la breve missiva e poi si era lasciato cadere sulla sedia.
Il cursor, il corriere imperiale proveniente da Laumellum lo aveva appena lasciato e certamente già si stava rifocillando nella cucina di Sextus, che per colazione gli avrebbe di sicuro preparato la focaccia fritta di sua specialità: un po’ pesante a dire il vero ma di sicura soddisfazione per il palato e che portava subito dopo all’impellente bisogno di schiacciare una pennichella.
Sicuramente non era consigliabile prima di un pattugliamento o una battaglia …
Ora era solo, nel silenzio del suo piccolo ufficio al primo piano del Praetorium illuminato da unica grande finestra alle sue spalle che dava sull’ingresso del piccolo castrum fortificato.
La stanza misurava circa dieci piedi per dieci, quasi al centro della stessa vi era il tavolo di legno massiccio usato come scrivania e la sedia con un cuscino; sulla sinistra, per chi guardava entrando nella stanza, uno scaffale di legno con le mensole riempite da rotoli di pergamena e tavolette cerate. Sul tavolo una brocca ed un calice, qualche incartamento, non molto distante dalla sedia un braciere acceso mitigava l’umidità del locale.
Allungò la mano a versarsi un sorso di vino allungato con acqua e trangugiatolo, subito pensò che sarebbe stato meglio berne puro, forte per riprendersi da ciò che aveva letto…
Impiegò non poco a tornare in sé e quasi si meravigliò di trovarsi seduto a fissare i pochi oggetti presenti sul tavolo: la brocca , il calice svuotato ….la carta topografica della XI Regio con segnate le località principali: Laumellum, Cuttiae, Pulchra Silva, Retovium ma anche i ponti, i castrum, le postazioni di difesa ed i confini.
Nel mese di Ianuarius, dopo la tragica morte di Caligola, era stato proclamato imperatore Tiberio Claudio Cesare Augusto Germanico: era un periodo di pace, ma già giungevano le prime voci sull’idea di Claudio di conquistare la Britannia, voci confermate dal fatto che in quei mesi più di qualche delegato imperiale in viaggio per il Nord con il suo piccolo seguito, era stato ricevuto ed ospitato nel castrum.
In piedi davanti alla finestra guardava distratto l’accampamento. Accanto al Praetorium vi erano i baraccamenti dei legionari e l’abitazione del centurione; dall’altro lato vi stava un piccolo ospedale militare, il Valetudinarium e più dietro gli Horrea , i granai ed i laboratori per la manutenzione delle armi e delle corazze.
Si mise ad osservare due cavalieri nel cortile impegnati, a turno, a lanciare i giavellotti contro un bersaglio che riproduceva uno scutum, lo scudo rettangolare dei legionari.
Vederli era una meraviglia. Portavano i cavalli in piena corsa sollevando un gran polverone e mentre già giravano il destriero per tornarsene al punto di partenza, lasciavano partire l’arma che puntualmente centrava il bersaglio.
Altri soldati nel frattempo passavano per la corte dediti alle incombenze quotidiane o si esercitavano con le armi.
Tornato al tavolo, riprese la lettera e la rilesse:
“ Da Domizio Claudio Celso del municipium di Laumellum a Gneo Cerdico Vespillo, comandante della legione del municipium di Cuttiae.
Salute.
Esulta! Dalla infausta Teotoburgo, dopo la giusta morte del tiranno Caligola e dopo le vendette propiziate dagli dei, ti annuncio che il generale Publio Gabinio Secondo ha recuperato la terza ed ultima insegna perduta e sta rientrando a Roma.
Viaggia in incognito da alcune settimane e farà sosta a Cottiae nei prossimi giorni.
Esulta come esulto io!
Stai sano”.
Si trovò a riflettere su Teotoburgo.
La battaglia si era svolta più di trent’anni prima, tra l'esercito romano guidato da Publio Quintilio Varo e una coalizione di tribù germaniche comandate da Arminio, capo dei Cherusci.
Era andato tutto male.
Prese dallo scaffale che fungeva anche da piccola biblioteca, il volume della Historiae romanae di Marco Velleio Patercolo. Cercò rapidamente la descrizione dell’episodio: “…un esercito fortissimo, il primo tra le truppe romane per addestramento, valore ed esperienza, fu accerchiato a sorpresa, a causa dell'indolenza del comandante, della falsità del nemico e dell'ingiustizia del destino [...]
E così l'esercito romano, chiuso tra foreste, paludi e agguati, fu massacrato fino all'ultimo uomo da un nemico che aveva sempre battuto a suo piacimento”.
Che disfatta! Tre intere legioni, la XVII, la XVIII e la XIX furono annientate, oltre a 6 coorti di fanteria e 3 ali di cavalleria ausiliaria e le insegne, simboli supremi, disperse o rubate.
L’onta era stata lavata solo parecchi anni dopo: un'aquila venne recuperata presso la tribù dei Bructeri nel 15 DC, la seconda dopo la vittoria nella battaglia di Idistaviso nel 16, ma della terza, il cui simbolo era il Capricorno, non vi era mai stata traccia o indizio che potesse aiutare a trovarla.
Adesso Celso gli scriveva che dalla immane tragedia erano venute, comunque ed imprevedibili, due ottime cose: l’assassinio di Caligola, pochi mesi prima, in una congiura di Pretoriani guidati da due tribuni, Cornelio Sabino e Cassio Cherea, un sopravvissuto di Teotoburgo, e soprattutto la strabiliante notizia appena ricevuta: il ritrovamento del simbolo della XVII !
Fece chiamare il signifer, il suo aiutante.
“Claudio, rintraccia Garicus e digli di aspettarmi da Cadellus all’hora septima”.
Claudio lasciò subito il castrum e la sua ricerca fu fortunatamente breve: trovò infatti chi cercava dopo circa novecento passi presso una bottega che esponeva fibulae in bronzo e ferro e lasciatogli il messaggio del suo superiore, se ne tornò al forte.
Poco prima dell’ora convenuta,Vespillo lasciò il castrum salutando le reclute a guardia del portone e attraversò a piedi il paese, lungo il cardo maximus , la via principale sulla quale si affacciavano quasi tutte le botteghe aperte fin dalle primissime ore dell’alba e affollate di clienti. Era un continuo vociare, chi a proporre la miglior frutta secca, le più dolci olive, il pane più fragrante: più discreti i venditori che producevano oggetti di bronzo, anfore e vasi; passò davanti ad un mercante di tuniche intento a mostrare le ultime novità a due giovani donne.
Nella bottega del tonsor Lucius si fermò a farsi radere; seduto su uno sgabello il barbiere gli ricoprì le spalle con un ampio asciugamano e iniziò a passargli il rasoio sulla barba. Lucio cercò di intavolare una conversazione, ma fu costretto quasi subito a rivolgere la sua attenzione agli altri clienti in attesa di essere serviti perché comprese che Gneo era perso nei suoi pensieri.
Dopo un lungo periodo di servizio in Apulia era stato ben contento di tornare nei luoghi della sua
fanciullezza. Il periodo di stabilità politica aveva reso la mutatio e il vicus, l’aggregato di case e terreni di Cuttiae e dintorni, un posto animato e di movimento perché luogo di avvicendamento logistico di salmerie e deposito di vettovaglie, nonché luogo di posta per i cavalli sulla strada per l'Alpis Graia e le Gallie.
Conduceva una vita tranquilla al castrum fra esercitazioni, l’espletamento delle pratiche burocratiche, il coordinamento del controllo del territorio, l’accoglienza di delegazioni straniere in avvicinamento a Roma. Come comandante di legione, aveva anche il dovere di tenere udienza ai postulanti, soprattutto contadini e commercianti per questioni di spostamento di confini di terreni o cattiva concorrenza, denunzia di furti, torti e altre necessità.
Una volta di nuovo in strada, lasciata la bottega di Lucio, incrociò truppe di passaggio dirette in Gallia e Germania, carovane di mercanti di vasellame e stoffe, amministratori rurali che venivano nella mutatio per la stesura delle mappe e la valutazione dei lotti di terreno acquistati od ereditati, contadini di passaggio con i loro carri, servi affaccendati a svolgere le mansioni affidate loro dai padroni.
Fu così a pochi passi dalla popina di Cadellus, a detta di tutti la migliore, anche perché l’unica, taverna di Cuttiae, in perfetto orario.
Qualche tavolo era all’aperto, gli avventori si godevano il tiepido sole mentre conversavano e gustavano chi una farinata di grano, qualcuno una minestra di verdura e fagioli, più in là una coppia sbocconcellava pane e olive.
Entrò: la taverna era composta da tre ambienti, il principale ed il più grande era quello in cui era adesso, e subito balzava agli occhi la scritta sul muro di fronte: “Si evitino quanto possibile le liti e si procrastinino odiosi battibecchi, altrimenti è meglio tornarsene a casa!”.
Oltre la soglia, subito le sue narici furono investite dal profumo di un arrosto messo a cuocere con un ramo di rosmarino; all’entrata, sulla sinistra vi era un lungo bancone rivestito di marmo a striature blu e dietro esso Cadellus e la moglie erano intenti ad estrarre dagli ampi fori circolari sulla superficie del bancone porzioni di olive, farro e garum, la famosa salsa prodotta dalle interiora di pesce. In un piccolo braciere accanto al banco, un pentolino scaldava del vino aromatizzato.
Il locale ospitava parecchi tavoli al suo interno, non tutti erano occupati. Fra gli avventori del momento vi erano un paio di coppie di contadini che conosceva, giunti in paese per il mercato, qualche soldato e alcuni mercanti, fra cui uno dall’aspetto esotico intento a mangiare uova di quaglia senza alzare gli occhi da tavola.
Dietro il bancone, separato da una apertura chiusa da un tendaggio, si apriva il secondo ambiente, che fungeva da retrobottega e cantina dove Cadellus gli aveva più volte mostrato con orgoglio i formaggi che faceva arrivare con fatica da Gergovia.
“Ave Cadellus, salute a te Domitia”, esordì Gneo.
“Salute anche a te”, dissero velocemente i due locandieri, troppo impegnati per prolungarsi in un’accoglienza più calorosa.
Cadellus invitò il servo ad accompagnare Vespillo nel terzo ambiente della taverna, un giardino recintato sul retro al quale si accedeva dal locale principale. Subito, seduto nel tavolo in fondo, intravide Garicus: Garric era il nome nella sua lingua, un celta che grazie alle sue innate doti di incredibile osservatore, a Roma ed in tempi di guerra avrebbe sicuramente fatto carriera come frumentarius, una spia o un infiltrato nell’esercito nemico; aveva lavorato alle fortificazioni del Limes sul Reno sotto Gaio Giulio Cesare Claudiano Germanico più di vent’anni prima ed ora
a Cuttiae, lavorava come falegname e fungeva da informatore per Vespillo.
Ordinarono maiale selvatico cotto al forno, olive e formaggio e del vino leggero.
“Indovina chi c’è di là?”, disse Garicus
“Non ne ho idea, è qualcuno che dovrei conoscere?”, rispose Gneo.
“Il mercante che mangia uova… è chiamato il σατράπης”, disse in greco, “che sta per satrapo, visto che il nome è impronunciabile…”
“Adesso mi dirai che non è un mercante…”
“Lo è, lo è….ma è solo una delle sue numerose attività marginali…”, lasciò in sospeso la frase
intingendo nel garum un boccone succulento del maialino.
Garric eccedeva sempre nella salsa con grande disgusto di Vespillo.
“Devo preoccuparmi?”, lo incalzò l’amico.
“No, volevo solo farti sapere che lo tengo d’occhio… quali notizie dal cursor che ho visto arrivare stamattina?”.
Naturalmente la cosa non gli era sfuggita.
“Questa non la potrai indovinare…nemmeno tu” e nel contempo gli si avvicinò per suggerirgli all’orecchio la clamorosa notizia contenuta nella lettera.
Garicus trasalì e sarebbe balzato in piedi se Vespillo non l’avesse prontamente trattenuto col braccio, invitandolo poi a parlare d’altro per il resto del pranzo.
Ci sarebbe stato tempo per discuterne a quattr’occhi in un ambiente più riservato.
Lasciati sul tavolo cinque sesterzi a pagamento del pranzo, uscirono e si divisero.
Al rientro nel suo ufficio, Vespillo trovò sulla scrivania l’invito per il convivium da Anicio Minio Marzio a Duriae per la sera di due giorni a venire.
Vespillo passò la giornata successiva ed il giorno immediatamente dopo immerso nel lavoro; smaltì parecchia corrispondenza arretrata e riorganizzò la distribuzione gratuita del grano ai poveri della zona.
La mattina del giorno del convivium, dovette scortare anche a Laumellum una carovana di mercanti di stoffe preziose ed al rientro fu subito chiamato a dare il suo giudizio su questioni amministrative concernenti il buon andamento del castrum.
Nel primo pomeriggio, lasciate al centurione le incombenze per la notte ed il comando della guarnigione, raggiunse la sua stanza da letto sita anch’essa nel praetorium accanto al suo ufficio. Era piuttosto piccola e arredata semplicemente con il giaciglio e la cassapanca con i vestiti; un piccolo baule sotto la finestra conteneva i suoi libri ed era utilizzato come piano d’appoggio e per scrivere. La vasca di rame era già stata preparata dai servi, l’acqua era bollente.
Dopo il bagno, indossò prima una tunica intima, poi un'altra esterna di lino e la toga; al posto delle consuete caligae, degli stivaletti chiusi che portava durante la giornata, mise le crepidae, dei sandali di cuoio intrecciato che sarebbero andati benissimo per il viaggio a cavallo.
Lasciò Cuttiae ben prima del tramonto sotto un cielo carico di nubi, poi d’improvviso qualche goccia cominciò a cadere, fortunatamente si trattava solamente di una leggera pioggerella che gli fece però tirare il cappuccio del mantello sulla testa.
Sulla strada per Duriae attraversò boschi e foreste di querce, le quali erano qua e là interrotte da paludi ricche di canne, carici, tife e da chiazze cespugliate e prative.
Di tanto in tanto sul percorso incontrò contadini impegnati a raccogliere ghiande per i loro porci.
Arrivò al ponte sul Sesia, scendendo al posto di guardia per l’identificazione e mostrato il lasciapassare proseguì attraversandolo ammirato dall’efficienza della tecnologia romana: il ponte era fatto da imbarcazioni distanziate fra loro da pontoni e tiranti e mantenute in linea per mezzo di corde con le estremità ancorate a blocchi di pietra posti sulle due rive. Un parapetto di legno a transenna proteggeva chi attraversava il ponte oltre a rinforzare l’impalcato ligneo di calpestio.
All’uscita di un altro bosco, dopo un piccolo avvallamento del terreno, poco dopo aver percorso un breve tratto della strada Settimia, gli apparve la tenuta di Anicio Minio Marzio che da lontano, dalla posizione leggermente sopraelevata in cui si trovava, poteva vedere per intero. Era circondata da campi d’orzo che maturava, di frumento ormai biondo e da terreni coltivate a rape; nel frattempo aveva ripreso a piovere e i contadini fuggivano a ripararsi sotto le fronde degli alberi e in un vicino capanno degli attrezzi.
La fattoria aveva al centro una piccola villa a due piani, che era l'abitazione stagionale del proprietario da maggio a settembre, una costruzione ad est dell'ingresso era adibita alla macinazione del grano e alla cottura del pane. Ad ovest si vedevano due cisterne ed un vano non molto grande usato per le riparazioni e le manutenzioni degli attrezzi. Vi erano poi altri edifici utilizzati come magazzini. Un piccolo altare votivo dedicato a Cerere, dea dell’agricoltura, dava direttamente su
uno dei campi sul retro della tenuta.
Nella grande corte vi erano due vasche: una serviva per dissetare gli animali, l’altra per alcune operazioni agricole quali il lasciare a mollo il cuoio o pulire gli attrezzi. Attorno alla corte sorgevano le costruzioni in muratura dove abitavano i servi, una grande cucina comune, le cantine, le stalle per i buoi, per i cavalli ed il pollaio.
Lontani dalla cucina, protetti in questo modo dai rischi d’incendio, c’erano i granai, i seccatoi e le stanze in cui era conservata la frutta.
A ridosso della villa rustica c’era l’aia, vicino a cui sorgevano alcuni capannoni, la rimessa dei carri agricoli e il nubiliarum, un luogo in cui riporre provvisoriamente il grano in caso di forti piogge.
Giunto davanti alla casa, saltò giù da cavallo e interrogò un ragazzino che stava portando una cassetta di frutta per la cucina dei servi.
“Ragazzo, sai dirmi se…”, fu interrotto dal farglisi incontro di Urien che lo accolse con un robusto abbraccio, quasi sollevandolo da terra: era un liberto che amministrava la fattoria per conto di Marzio e che conosceva Gneo da quando questi era bambino.
L’anziano fiduciario del padrone della tenuta era un Gallo del Nord, schiavo dei precedenti proprietari e affrancato da Marzio che gli aveva affidato con profitto la gestione della tenuta; la famiglia di Gneo un tempo abitava nei pressi - il padre era di Duriae ed alla fine del servizio militare aveva ricevuto per il congedo un piccolo appezzamento di terra - e il piccolo Vespillo veniva a giocare alla fattoria con i figli del vecchio proprietario.
Dopo qualche minuto passato bonariamente con l’amico di famiglia a ricordare i vecchi tempi, Vespillo fu introdotto in casa: all’ingresso, una serva gli lavò le mani e gli fece indossare le solae, dei sandali riservati al solo uso domestico.
La cena sarebbe stata come al solito sotto il bel patio della villa, illuminato con lucerne in terracotta e in bronzo e con una magnifica vista sui boschi. Il padrone di casa era da sempre un personaggio bizzoso ed anticonformista: a parte le cene ufficiali non amava infatti far desinare gli ospiti sdraiati sui triclinii ed utilizzava invece sedie con cuscini intorno ad un tavolo quadrato preparato con una tovaglia di lino, sul quale, per ognuno dei commensali, erano disposte una ciotola larga e bassa, un piatto capiente, una coppa in ceramica, un cucchiaio. Al centro del tavolo facevano bella mostra di sé una saliera d’argento e l’ampolla dell’aceto.
Marzio lo accolse calorosamente:
“Salute Vespillo, che si dice a Cuttiae?”
“Ordinaria amministrazione e qualche grana, come sempre”.
Con lui vi era un ospite importante che gli fu presentato come Decimo Licinio Atello, un possessore di miniere in Sardinia, in quei giorni a Duriae per un importante affare col padrone di casa.
Dall’interno della villa, arrivarono moglie e figlia accompagnate da un uomo piccolo e magro di circa sessant’anni che portava una semplice tunica dalle maniche lunghe.
Livia e Didia, la figlia, indossavano entrambe la stola, una tunica ampia e lunga fino ai piedi, fermata in vita vita da un cingulum, una cintura, mentre la ragazzina faceva uso anche di un succingulum per formare un secondo sbuffo di stoffa più ricco all'altezza delle anche.
L’abbigliamento era completato dalle spille, da anelli alle dita, da un bracciale alla caviglia.
L’uomo stava intrattenendo le due donne:
“… che belle penne nere hai! - esclamò allora abbastanza forte per farsi sentire dal corvo; se la tua voce è bella come le tue penne, tu certo sei il re degli uccelli! Fammela sentire, ti prego!”,
“Quel vanitoso del Corvo, sentendosi lodare, non resistette alla tentazione di far udire il suo brutto cra crà!, ma…” , proseguì la storia Vespillo guardando la giovinetta ed imitando il nero volatile.
“…non appena aprì il becco, il pezzo di formaggio gli cadde e la volpe fu ben lesta ad afferrarlo e a scappare, ridendosi di lui”, concluse l’altro fra i sorrisi compiaciuti di Didia.
“E’ forse la favola di Fedro che preferisco”, continuò Gneo.
“Ed anche quella che l’autore ama di più: Fedro ti ringrazia e ti saluta!”.
“Caro Gneo, ti presento un mio carissimo amico, il sommo Fedro”, gli disse Marzio lasciandolo di sasso.
Quale onore aveva appena avuto: conoscere Fedro, il famoso favolista!
La sua storia era nota ai più: nato sul Pierio, il monte delle Muse in Macedonia, era giunto giovanissimo a Roma come schiavo; emancipato dall’imperatore Augusto divenne precettore dei suoi figli ed era in quegli anni al massimo della fama.
Si accomodarono intorno al tavolo, Atello alla destra di Marzio, che sedeva capotavola, a sinistra sua moglie, Didia accanto alla madre, di fronte Fedro con Vespillo alla sua sinistra.
La cena fu suddivisa in tre momenti. Nel primo furono serviti i gustatio, gli antipasti di uova, olive e verdure crude, accompagnati dal muslum, una bevanda a base di vino e miele. Poi piatti di carne di maiale arrosto e pesce di fiume, seguiti da arrosti di cacciagione, cervo e cinghiale, accompagnati dal solito garum e da una salsa di formaggio piccante, l’hyppotrimma che Gneo amava particolarmente.
Marzio non presentava mai ai suoi commensali quelle che considerava stranezze culinarie come il ghiro cucinato con il miele o le lingue di fenicottero saltate, pur essendo invece solitamente servite nella maggior parte delle case patrizie in occasione dei banchetti.
Il cuciniere di casa si ispirava alle ricette di Marco Gavio Apicio, un famoso cuoco, la cui specialità era l’esca Apicii, zucchini con salsa a base di aceto, che difatti arrivò in tavola poco dopo.
Infine frutta fresca e secca e focacce salate al formaggio, accompagnate da vino Falerno e vino locale ricavato dalle uve Apianae e proveniente da Ultra Padus.
La cena fu piacevole e allietata in special modo da Fedro che raccontò molte delle sue favole e intrattenne gli ospiti con storielle spassose ed alla fine si congedò dagli amici e da Vespillo con una massima:
"Giove impose agli uomini due bisacce: mise quella dei vizi propri dietro la schiena,quella carica dei vizi altrui davanti al petto. A causa di ciò non possiamo vedere i nostri difetti, ma siamo censori non appena gli altri sbagliano"
Dopo poco anche Gneo salutò e ringraziò Marzio e la sua famiglia della splendida serata e della ospitalità che gli fu offerta per la notte.
Un servo lo accompagnò nella camera a lui riservata dove prese subito sonno cullato dal frinire dei grilli.
Il mattino dopo all’alba, fece colazione con Urien che gli offrì una focaccia al miele; questi lo portò poi presso un piccolo appezzamento allagato pochi passi dietro la tenuta. Lì giunti gli consegnò un sacchetto di piccoli semi ellittici che estrasse dalla tasca. Vespillo ne lasciò cadere qualcuno sul palmo della mano, meravigliandosi di vedere dei chicchi di forma arrotondata, di un colore bianco che mai aveva visto prima.
“Che cosa è?”
“όρυζα”, rispose , “un cereale che viene dalla terra dei Serici, Sera Maior, l’ho avuto da un viandante greco che lo chiamava anche oryza . E’ incredibile, mentre il grano e l’orzo marcirebbero se coperti d’acqua, questo si coltiva e cresce immerso nell’acqua, ed una volta raccolto lo puoi bollire o farne farina…”
Il buon vecchio Urien, ne aveva trovata un’altra delle sue!
“Abbi cura di te, Urien” , l’abbracciò.
“Abbi cura di te, Gneo e stai sano”, ricambiò l’amico accompagnandolo a riprendersi il cavallo.
Sì incamminò così sulla via del ritorno lasciando la fattoria, mentre una fitta nebbia saliva dai campi umidi della pioggia del tardo pomeriggio precedente.
I rami dei pioppi bianchi e neri, dei salici e degli ontani ai margini dei campi e, più avanti delle querce dei boschi, trasudavano umidità.
Non era di nuovo da molto nel suo ufficio che il signifer corse ad avvisarlo dell’arrivo inatteso di un piccolo drappello di quattro cavalieri, con le insegne e le divise dei cursores.
Si precipitò giù nel cortile, dove gli uomini scesi dalle loro cavalcature si scrollavano di dosso la polvere.
“Salve, sono Vespillo, il comandante…”.
“Salute, ho un messaggio da consegnarti “, rispose l’ufficiale in tutta fretta, chiedendo di seguirlo all’interno del praetorium dove portò con sé un fardello di stracci oltre alla sua bisaccia di pelle con i documenti e la posta.
Una volta nell’ufficio di Gneo, sedutosi e bevuta una coppa di vino leggero con acqua, il cursor mostrò a Vespillo un sigillo che ne rivelava la vera identità.
Gneo balzò in piedi dalla sedia: non si trattava di un corriere.
“Generale Publio Gabinio Secondo!”, esclamò, salutandolo impettito.
Era arrivato ed era adesso seduto davanti a lui: quanto anticipato nella lettera di Celso di tre giorni prima stava accadendo.
Publio sollevò il bagaglio e l’appoggiò sul tavolo, iniziò a levare gli stracci con gesti quasi solenni che a Vespillo sembrarono durare un tempo infinito e così apparve davanti ai suoi occhi un’ insegna spezzata in più parti: integra, sarebbe stata composta da un'asta di legno alla cui estremità era presente un drappo purpureo e, più in alto, una piccola statua di metallo raffigurante un capricorno, quale emblema della compagnia.
Inconfondibile, finalmente il simbolo della Legio XVII era di nuovo in terra amica a eterno ricordo e per il tributo dei dovuti onori agli uomini caduti per difenderla.
Il valente lavoro dei restauratori le avrebbe restituito a breve l’antica bellezza.
Offrì al generale tutta l’assistenza e l’ospitalità della legione, ma l’ufficiale rifiutò gentilmente perché doveva proseguire immediatamente ed in incognito, scortato solo dalla guardia scelta che lo accompagnava nel percorso.
Lo riaccompagnò così subito alle stalle, dove, cambiati i cavalli e riforniti di vettovaglie per il viaggio, Gabinio ed i suoi ripartirono velocemente per proseguire verso la meta finale, Roma. Vespillo li osservò allontanarsi, superare il portone d’ingresso al castrum e sparire per il cardo maximus fino a divenire minuscoli puntini all’orizzonte.
Era ancora in piedi in mezzo al cortile quando vide arrivare di corsa Garric, l’amico si fermò quasi esanime al suo fianco a riprendere fiato con le mani sulle ginocchia.
“Vecchio mio, cominci a perdere colpi, se ne sono appena andati”, rise Vespillo.
“Vieni, accompagnami nel mio ufficio….così ti racconto!”.


G. Ceriana
Febbraio 2010

lunedì 30 aprile 2007

Un racconto "longobardo" di G.Ceriana.

LA REGINA
Copyright 2010 GIANLUCA CERIANA
Oltre mezz’ora di strada mi separava da Laumellum, mezz’ora di cammino solitario vigile e silenzioso.
In realtà un uccello avrebbe compiuto l’intero percorso prima che la più piccola delle clessidre avesse visto la propria sabbia fermarsi completamente sul fondo. Certo, ma l’animale volante avrebbe avuto solo il cielo azzurro davanti a sé e non il muro verdeggiante che io vedevo.
Laumellum era collegato al mio villaggio Mutatio ad Medias, da un largo sentiero, lungo poco più di tre miglia, che attraversava più foreste, molto numerose nel nostro territorio.
Il mio cammino era perciò lento e pieno di mille attenzioni: anche durante il giorno i boschi potevano riservare molte sorprese e nonostante avessi percorso spesso quei sentieri, non mi sentivo mai tranquillo. Ero a cavallo, certo, ma questo non diminuiva i pericoli. Era un buon cavallo anche se ormai vecchio e per noi era stata una fortuna trovarlo abbandonato nel bosco mentre eravamo impegnati a far legna, a non molti passi dalla nostra terra. Mio fratello lo aveva visto brucare vicino alla palude e bardato riccamente com’era, doveva essere sfuggito a qualche signore poco abile nel districarsi nei boschi o vittima di qualche brigante.
Pochi nel contado possedevano un cavallo da monta, così – visto che nessuno era venuto a cercare un cavallo smarrito – lo avevamo fatto nostro, vestendolo di povere bardature e lasciando crescere incolte la criniera e la coda, un tempo curate e pettinate, per non rivelarne la nobile provenienza.
Mi ero allontanato di non pochi passi dalla nostra casa, quando incontrai Arcangelo, che mi veniva incontro in direzione opposta. Era uscito poco prima del sorgere del sole per procurarci il pranzo.
-“ Salve, fratello”, dissi, “buona caccia oggi vedo”.
Dalla sua borsa al fianco sinistro pendevano difatti due grosse anitre, di certo catturate nella vicina risorgiva, mentre con il braccio destro sosteneva la wada[1] piena di pesci.
-“ Direi di sì, il torrente di Med ci dà sempre buone possibilità…se si conoscono tutti i punti buoni.
Buon cammino!”, mi augurò proseguendo.
Arcangelo chiamava sempre il nostro villaggio Med, “il fertile”, alla maniera celta. Mutatio era stato imposto dai Romani ai nostri avi ed era divenuto un punto di sosta e di ristoro sulle strade per la Gallia. Sconfitti i Romani dalle genti germaniche, i discendenti dei Celti erano tornati a chiamare luoghi e cose con il loro nome d’origine.
Mor[2]cavalcava lentamente, senza fiatare. I forti raggi del sole trafiggevano il cielo fatto di frasche, rendendo tiepido e piacevole il cammino, nonostante la stagione del grano fosse ormai finita da molto tempo. Varie specie di uccelli musicavano il bosco, mentre lepri e cinghiali spiavano da lontano i viaggiatori. Cervi e cerbiatti erano invece parecchie miglia di strada a nord, ma un paio di volte il mitico cervo bianco era stato avvistato anche nei boschi che stravo attraversando.
Il mio cammino procedeva tranquillo ed ora vedevo in lontananza, sul mio fianco sinistro, una delle paludi più grandi. Querce e carpini bianchi contornavano il sentiero, mentre nelle radure più riparate, gli uccelli banchettavano coi piccoli pomi dei biancospini. In lontananza si udiva il grugnito di qualche cinghiale.
Mentre proseguivo avevo addentato del pane, preso dalla sacca che pendeva dal fianco destro di Mor. Era il mio pranzo, poiché sarei tornato da Laumellum solo nel pomeriggio. Dovevo concludere per mio padre la vendita del nostro grano ad un signore locale, un buon uomo, un germano che da tempo viveva stabilmente nel villaggio.
Perso com’ero nei miei pensieri sentii chiamare:
-“Ave, giovane!”.
Di fronte a me veniva a piedi un uomo in abiti modesti, un viandante forse, ma non vi era da fidarsi e difatti misi presto la mano sotto la maglia toccando il pugnale.
-“Vi prego giovane, chiedo solo un pezzo del pane che stai consumando. E’ vero che sono molto vicino a casa, come tu ben sai, ma ho paura di non potere aspettare oltre… e poi è da almeno cento passi che ho sentito il profumo del pane di tua madre, donna Maria.”
Lasciai subito il pugnale non appena l’uomo fu bene in vista. Avevo ormai riconosciuto il vecchio Abramo di Sar-tir[3].
-“E’un piacere per me incontrarti, Abramo, così come dividere il mio pranzo con un vecchio amico di mio padre. Sono però in cammino per Laumellum e non posso fermarmi a mangiare con te…Vi saluto perciò e buon cammino”, terminai allungandogli oltre metà pagnotta.
-“Desinerò da solo, con gli amici della foresta”, replicò lanciando subito qualche briciola all’indirizzo di un leprotto che aveva fatto timidamente capolino dietro un vicino cespuglio, “non ti preoccupare per me. Vi è festa a Levium[4] quest’oggi e per una settimana. Buon divertimento!”, disse Abramo ridendo ed addentando finalmente il pane.
-“Perché festa, che vi succede?”, proseguii meravigliato.
-“Non è restando nella fattoria che conoscerai le cose…”, replicò.” Vai, raggiungi il villaggio e lo saprai”, disse ridendo nuovamente e proseguendo lesto alle mie spalle.
-“Bene allora, affrettiamo il passo Mor, sono davvero curioso”.
Finalmente arrivai alla fine del bosco, nei terreni coltivati a panicus davanti a Laumellum. Il grosso borgo era ben fortificato fin dai tempi dei Romani e continuava ad essere protetto dalle mura longobarde.
Entrai in città senza problemi e senza troppi controlli grazie al nome di Wielfried, il nobiluomo nostro cliente.
Il villaggio era vivo come sempre e passai al solito, con Mor a passo lento, dinanzi alla possente roccaforte ed ai venditori ambulanti che mettevano in bella mostra i loro prodotti: il mercato era frequentato a quell’ora del mattino e le donne se ne tornavano con panieri e sacche ricolmi. Anche mio padre talvolta vendeva a Laumellum parte del nostro orzo, ma anche rape e ghiande.
Vi erano vessilli spiegati a festa sulle pareti del castello ed una animazione particolare tutt’intorno.
Fermai un mercante di selvaggina.
-“ Ditemi, buon’uomo, poiché sono forestiero, il motivo di quest’insolita animazione. Non ricordavo il villaggio così festoso dall’ultimo ottimo raccolto di qualche anno fa!”.
-“Come fate a non sapere giovane? E’ per lei, la Regina, che si sposerà fra qualche giorno”, disse il villano eccitatissimo.
Trasalii. “La Regina”, pensai, “Teodolinda!”.
Avevo saputo da un paio di viaggiatori di passaggio a Med della tragica morte del re Autari e della volontà della regina di maritarsi di nuovo, ma non pensavo che tutto ciò sarebbe avvenuto così presto. Beh, la regina non meritava di restare sola! Stava governando bene ed era solo grazie a lei che il nostro popolo era da poco in ottimi rapporti con i Longobardi.
E poi, maritandosi a Laumellum, mi dava la possibilità di vederla come mai mi era successo.
Interessato, smontai da cavallo e proseguii a piedi accompagnando Mor per le briglie.
Il villaggio era veramente attivo e piacevole. Il decumanus brulicava di gente: mercanti frettolosi e vocianti, soldati paffuti e gioviali che entravano e uscivano dalle locande, giovani nobili a cavallo, donne della servitù impegnate nelle spese per il pranzo.
Era piacevole percorrere il selciato lentamente, guardandosi intorno e scorgendo dalle finestre delle case le giovani atte ai lavori domestici od a giochi nei giardini ricchi di fiori. In breve raggiunsi l’abitazione del nobile Wielfried. Il nostro colloquio fu, al solito, breve ma preciso e l’accordo subito raggiunto.
”Mio padre ne sarà felice”, pensai subito.
Grande fu la mia sorpresa, lasciando il villaggio quando ormai il cielo si cingeva di rosso, nell’incontrare Adalberto.
-“Salve fratello, come mai mai qui?...”
-“Salve a te! Dovevo finire un lavoro di muratura al castello.Per la grande festa, sai”.
Non sapevo stesse lavorando per i principi.
-“Neanche io, in verità”, disse captando il mio pensiero, era una sua straordinaria capacità.”Ne ho avuto notizia solo nel pomeriggio, dopo aver completato il pozzo di una casa. Anzi, domani potrai accompagnarmi, ne avrò per poco tempo ancora, così oltre ad aiutarmi, potremmo magari scoprire qualcosa d’interessante…”.
-“Bene!”, risposi, “Verrò senz’altro se non ci sarà molto da fare nel campo”.
Il ritorno fu piacevole grazie alla compagnia di Adalberto; giungemmo alla nostra sala[5] in tempo per aiutare nostro padre a porre al riparo per la notte gli attrezzi del lavoro. Nuvole minacciose già coprivano il cielo. Avrebbe piovuto la notte.
Consumammo la cena, supfa e frittelle di borragine e cicoria, parlando tutti del grande evento, dopo avere mostrato a mio padre, a conferma della vendita del grano, un sacchetto di sonanti tremissi.
-“Qualche volta penso di cercare anche qualche altro compratore”, disse lui, “poi penso a messere Wielfried e mi dispiace solo avere pensato di dare il grano a qualcun altro.”
-“Difatti è sempre cortese e generoso, anche se non la tira mai per le lunghe”, replicaii.
-E’un fatto eccezionale potere vedere da vicino la Regina!”, sbottò Arcangelo.”Ella è quasi sempre rimasta a Ticinum, la capitale, ed il suo matrimonio qui farà ricordare per sempre queste foreste”.
-“Bene allora”, sentenziò mia madre, “andremo tutti a vederla, dunque”, terminò lanciando un’occhiata a mio padre che già stava per replicare con un’obiezione.
Intanto, aveva già incominciato a piovere.
Prima una pioggia leggerissima aveva inumidito appena il terreno e battuto sul tetto come avrebbero fatto decine di picchi, poi l’acqua sempre più fitta aveva reso la terra intorno alla casa un mare di fango, senza accennare a smettere. Ben presto, cullati dal rumore della pioggia e spente le candele di sego, ci addormentammo. Un cane, lontano, latrava.
La mattina dopo, al nostro risveglio, pioveva ancora. Decisi quindi di seguire mio fratello al villaggio, allorché non sarebbe stato possibile lavorare nei campi quel giorno.
Partimmo a piedi per Levium, avvolti dai mantelli pesanti e raggiungemmo le prime abitazioni dopo un’ora circa di cammino. Che aria differente aveva il villaggio da come l’avevamo visto entrambi ieri! Le strade erano quasi completamente deserte e solo qualche soldato girava scontento per il villaggio, di certo obbligato a stare di pattuglia sotto l’acqua battente mentre il suo comandante si scaldava e bevevo accanto al fuoco. Il resto della popolazione se ne stava invece al riparo, chi nelle botteghe, chi in casa oppure nelle locande.
Le guardie di turno all’entrata del castello riconobbero Adalberto e ci lasciarono entrare.
-“Penso tu non sia mai stato qui, vero?”, mi disse.
-“In effetti mai ed è bello come immaginavo…anche se...”, e qui abbassai la voce fino ad un sussurro, “non fastoso come la fortezza di Ticinum”.
-“Quella è tutta un’altra cosa, come la reggia di Mediolanum”, replicò Adalberto.
Subito fummo nel grande cortile, dove mio fratello doveva terminare la copertura di un muretto di sostegno. la pioggia finalmente accennava a diminuire, così lasciammo i mantelli a cavallo del grande pozzo del giardino.
-“Peccato non potere vedere la grande sala e le altre stanze”, disse Adalberto raccogliendo i mattoni che gli porgevo,” ne vedremmo delle belle…”.
La fine della pioggia aveva permesso al cortile di rianimarsi. Personale della servitù ora lo attraversava velocemente, la pattuglia di guardia stancamente, i nobili a passeggio lentamente.
Poi, le vedemmo.
Tre o quattro giovani donne a passeggio con un’anziana accompagnatrice. Scossi Adalberto, che si voltò interrompendo il lavoro. Si assomigliavano tutte fra di loro, nei loro abiti sfarzosi e colorati che davano rilievo al viso bianchissimo ed alle lunghe trecce bionde. Passeggiavano quietamente chiacchierando, precedute in ogni passo dall’anziana dama. Dapprima scansarono attentamente le pozzanghere sul selciato e sui sentieri divenuti fangosi, poi non poterono evitare di bagnarsi comunque, visto che un sordo rumore annunciò un altro temporale.
Essendo prossime al pozzo al cadere delle prime gocce, l’anziana tutrice vide i nostri mantelli colà posati e li prese subito coprendo la testa delle giovani donne che corsero velocemente al riparo.
Adalberto ed io lasciammo rapidamente il cortile a nostra volta e trovammo un’opportuna copertura sotto un colonnato.
-“Eccola di nuovo!”, dissi, “ e fra l’altro adesso siamo senza mantello…Però ne è valsa la pena visto a chi sono destinati”.
-“Sono d’accordo”, disse Adalberto, “non avevo mai visto al villaggio delle donne così belle e chiare di pelle, e si dice che Teodolinda sia tale e quale. Comunque”, aggiunse,” i nostri mantelli ce li riprenderemo fra poco. Vieni!”.
Ed entrò nel castello.
Gli fui subito dietro, non prima però di essermi guardato alle spalle perché mi aspettavo comparire le guardie da un momento all’altro. Anche all’interno vi era un continuo movimento di preparativi per la grande festa, così che le pattuglie faticavano a distinguere la servitù del castello dalle genti del villaggio che partecipavano agli allestimenti.
Fu così facile confondersi con gli addetti alle salmerie, con i birrai, coi contadini dalle sporte cariche di pollame, coi cacciatori reali di ritorno dalla Silva Urbe[6] con cervi e daini.
La nostra ricerca fu per fortuna breve: vedemmo infatti le giovani appoggiate alla balaustra di una passerella che collegava due parti del castello. Di là rimiravano il giardino fradicio d’acqua respirandone la frescura. Due tenevano fra le mani i nostri mantelli umidi. Inutile aggiungere che la vecchia balia era nelle immediate vicinanze.
-“Giovani dame”, dissi inchinandomi – e lo stesso fece mio fratello – e rivolgendomi loro con le poche parole che sapevo di winnile, “ a causa della pioggia che continua a cadere, dobbiamo chiedervi di restituirci i nostri mantelli”.
-“Quelli che tenete fra le mani…”, aggiunse Adalberto.
Un sorriso colorò di rosa le bianche gote delle giovani, guardando i mantelli.
“Potete darli loro”, disse la voce della tutrice alle nostre spalle. Si era espressa in volgare neolatino, la nostra lingua comune, perciò non osammo aggiungere altro né parlare fra noi per timore, certezza anzi, che potesse capire quello che stavamo dicendo. Le due giovani si avvicinarono tenendo gli occhi bassi e ci posero i due mantelli; sotto le falde della stoffa sfiorai le mani della dama che mi si era avvicinata e così fece Adalberto, come poi seppi.
Un nuovo inchino e ringraziando lasciammo rapidamente la passerella coperta senza voltarci per non sollevare le ire della custode.
Ci fermammo alla locanda per ristorarci prima di intraprendere il cammino verso casa. L’ambiente era caldo ed accogliente ed appena varcata la soglia, notammo un folto gruppo di persone attorno a un tavolo. Subito ci avvicinammo scorgendo seduto un vecchio coperto da uno spesso mantello. Tutti gli altri erano invece in piedi e solo pochi, nel locale, non facevano caso alla scena, seguitando a consumare il proprio pasto.
-“ Vi dico che il sovrano sarà Agilulfo, così come ha voluto il destino”, raccontava l’uomo, fra un boccone e l’altro di pane intinto nella densa zuppa di verdure.
Presto fummo anche noi in mezzo al gruppo.
-“Io ero presente al matrimonio della Regina con Autari, vi dico, e lì il destino ha dato un segno. Era una giornata buia, il cielo offuscato dalle nubi e un temporale fu subito sulle nostre teste”, continuò bevendo una tazza di vino.” Tuoni e lampi come non se ne erano mai visti squarciarono il cielo ed una saetta colpì un grosso albero del giardino del re. Sussultai nel comprendere ciò che esso volesse dire, ma non potei fare a meno di riferirlo al duca Agilulfo, il quale allora faceva ricorso ai miei servigi:
“Tra non molto la donna che sta per maritare il re sarà vostra moglie…”, gli dissi”.
Tutti quelli intorno al tavolo allibirono.
-“Il duca”, terminò il vecchio,” minacciò di decapitarmi per ciò che avevo detto: gli replicai che poteva farlo, certamente, era in suo potere disporre di me come voleva, ma aggiunsi che non poteva invece cambiare quello che sarebbe stato!”.
Subito dopo, il vegliardo lasciò la locanda senz’altro aggiungere, appoggiando nelle mani dell’oste qualche moneta per pagare il pranzo.
Uscimmo anche noi dopo aver consumato una coppa di vino caldo. Non eravamo sorpresi dai discorsi dell’uomo.
-“E’…è come ci disse Abramo molto tempo fa, ricordi?”, dissi a mio fratello.
-“Sì, la storia dell’indovino al matrimonio del Re”, replicò Adalberto. “Quell’uomo non finirà mai di sorprendermi, anche se …ai carri volanti di cui parla non posso proprio credere!”.
Tardammo un poco quella sera e in casa avevano già mangiato, ma la zuppa sempre calda nel paiolo sopra il fuoco ci confortò subito facendoci dimenticare la giornata fredda e piovosa ma non l’avventura vissuta.
Non lasciammo casa nei due giorni che ci separavano dalla grande festa a Levium, impegnati nei lavori con nostro padre e Arcangelo, ma felici di pensare che avremmo festeggiato e riposato anche noi dopo la cerimonia nuziale.
Furono giornate piene, occupate nella raccolta della legna per il fuoco, nel procurare le ghiande per il maiale, nel raccogliere bacche e frutta selvatica, nel riparare il tetto del pollaio.
E venne il gran giorno. L’aria fresca e pulita. Ci levammo presto per preparare il carro con cui raggiungere Levium e partimmo di buon’ora.
Contrariamente agli altri giorni, il sentiero nel bosco era ben affollato di carri, pellegrini, altri viaggiatori di tutte le caste che si stavano recando al villaggio per l’importante avvenimento.
Il villaggio inghirlandato era solenne e festoso ed in ogni angolo vi erano capannelli di gente animata e felice.
-“Anche voi qui, damigelle”, dicemmo incontrando alcune giovani donne del nostro villaggio e ci allontanammo con loro, fra i sorrisi dei nostri genitori, per assistere da vicino al corteo che fu magnifico e festoso, dominato dalla bellezza della regina e dal sorriso bonario del duca Agilulfo.
Prima vennero i soldati a piedi.
Li sentimmo, ancor prima di vederli apparire in fondo alla strada che veniva da Ticinum. Poi scudieri e paggi reali, infine i Gasindi, i “compagni”, la fedelissima cavalleria a protezione del re guidata dal mahrskalk che precedeva, anzi circondava nella loro imponenza, il sovrano e la regina.
Il lungo corteo percorse il decumano fra due ali di folla accorsa per l’imperdibile occasione e terminò il suo cammino sul sagrato della chiesa ove il graf[7]e il vescovo accolsero gli sposi.
Prima di ritirarsi nel castello, Agilulfo e Teodolinda salutarono il popolo nella grande piazza gremita dai villici.
Teodolinda era sempre di più la nostra regina e noi, vecchi Celti, ci sentivamo sempre più Longobardi.

[1] piccola rete a strascico
[2] dal celtico “palude”
[3] Dal celtico “la zona delle foreste più fitte”, l’odierna Sartirana
[4] Dai Levi, popolo fondatore della cittadina
[5] termine germanico-longobardo per indicare la casa, l’abitazione
[6] la vasta foresta nei pressi di Widu, l’attuale Marengo, riserva di caccia prediletta fin dai tempi del re Alboino
[7] il conte, che governava in nome del re il gau, ossia il contado della zona