lunedì 30 aprile 2007

Un racconto "longobardo" di G.Ceriana.

LA REGINA
Copyright 2010 GIANLUCA CERIANA
Oltre mezz’ora di strada mi separava da Laumellum, mezz’ora di cammino solitario vigile e silenzioso.
In realtà un uccello avrebbe compiuto l’intero percorso prima che la più piccola delle clessidre avesse visto la propria sabbia fermarsi completamente sul fondo. Certo, ma l’animale volante avrebbe avuto solo il cielo azzurro davanti a sé e non il muro verdeggiante che io vedevo.
Laumellum era collegato al mio villaggio Mutatio ad Medias, da un largo sentiero, lungo poco più di tre miglia, che attraversava più foreste, molto numerose nel nostro territorio.
Il mio cammino era perciò lento e pieno di mille attenzioni: anche durante il giorno i boschi potevano riservare molte sorprese e nonostante avessi percorso spesso quei sentieri, non mi sentivo mai tranquillo. Ero a cavallo, certo, ma questo non diminuiva i pericoli. Era un buon cavallo anche se ormai vecchio e per noi era stata una fortuna trovarlo abbandonato nel bosco mentre eravamo impegnati a far legna, a non molti passi dalla nostra terra. Mio fratello lo aveva visto brucare vicino alla palude e bardato riccamente com’era, doveva essere sfuggito a qualche signore poco abile nel districarsi nei boschi o vittima di qualche brigante.
Pochi nel contado possedevano un cavallo da monta, così – visto che nessuno era venuto a cercare un cavallo smarrito – lo avevamo fatto nostro, vestendolo di povere bardature e lasciando crescere incolte la criniera e la coda, un tempo curate e pettinate, per non rivelarne la nobile provenienza.
Mi ero allontanato di non pochi passi dalla nostra casa, quando incontrai Arcangelo, che mi veniva incontro in direzione opposta. Era uscito poco prima del sorgere del sole per procurarci il pranzo.
-“ Salve, fratello”, dissi, “buona caccia oggi vedo”.
Dalla sua borsa al fianco sinistro pendevano difatti due grosse anitre, di certo catturate nella vicina risorgiva, mentre con il braccio destro sosteneva la wada[1] piena di pesci.
-“ Direi di sì, il torrente di Med ci dà sempre buone possibilità…se si conoscono tutti i punti buoni.
Buon cammino!”, mi augurò proseguendo.
Arcangelo chiamava sempre il nostro villaggio Med, “il fertile”, alla maniera celta. Mutatio era stato imposto dai Romani ai nostri avi ed era divenuto un punto di sosta e di ristoro sulle strade per la Gallia. Sconfitti i Romani dalle genti germaniche, i discendenti dei Celti erano tornati a chiamare luoghi e cose con il loro nome d’origine.
Mor[2]cavalcava lentamente, senza fiatare. I forti raggi del sole trafiggevano il cielo fatto di frasche, rendendo tiepido e piacevole il cammino, nonostante la stagione del grano fosse ormai finita da molto tempo. Varie specie di uccelli musicavano il bosco, mentre lepri e cinghiali spiavano da lontano i viaggiatori. Cervi e cerbiatti erano invece parecchie miglia di strada a nord, ma un paio di volte il mitico cervo bianco era stato avvistato anche nei boschi che stravo attraversando.
Il mio cammino procedeva tranquillo ed ora vedevo in lontananza, sul mio fianco sinistro, una delle paludi più grandi. Querce e carpini bianchi contornavano il sentiero, mentre nelle radure più riparate, gli uccelli banchettavano coi piccoli pomi dei biancospini. In lontananza si udiva il grugnito di qualche cinghiale.
Mentre proseguivo avevo addentato del pane, preso dalla sacca che pendeva dal fianco destro di Mor. Era il mio pranzo, poiché sarei tornato da Laumellum solo nel pomeriggio. Dovevo concludere per mio padre la vendita del nostro grano ad un signore locale, un buon uomo, un germano che da tempo viveva stabilmente nel villaggio.
Perso com’ero nei miei pensieri sentii chiamare:
-“Ave, giovane!”.
Di fronte a me veniva a piedi un uomo in abiti modesti, un viandante forse, ma non vi era da fidarsi e difatti misi presto la mano sotto la maglia toccando il pugnale.
-“Vi prego giovane, chiedo solo un pezzo del pane che stai consumando. E’ vero che sono molto vicino a casa, come tu ben sai, ma ho paura di non potere aspettare oltre… e poi è da almeno cento passi che ho sentito il profumo del pane di tua madre, donna Maria.”
Lasciai subito il pugnale non appena l’uomo fu bene in vista. Avevo ormai riconosciuto il vecchio Abramo di Sar-tir[3].
-“E’un piacere per me incontrarti, Abramo, così come dividere il mio pranzo con un vecchio amico di mio padre. Sono però in cammino per Laumellum e non posso fermarmi a mangiare con te…Vi saluto perciò e buon cammino”, terminai allungandogli oltre metà pagnotta.
-“Desinerò da solo, con gli amici della foresta”, replicò lanciando subito qualche briciola all’indirizzo di un leprotto che aveva fatto timidamente capolino dietro un vicino cespuglio, “non ti preoccupare per me. Vi è festa a Levium[4] quest’oggi e per una settimana. Buon divertimento!”, disse Abramo ridendo ed addentando finalmente il pane.
-“Perché festa, che vi succede?”, proseguii meravigliato.
-“Non è restando nella fattoria che conoscerai le cose…”, replicò.” Vai, raggiungi il villaggio e lo saprai”, disse ridendo nuovamente e proseguendo lesto alle mie spalle.
-“Bene allora, affrettiamo il passo Mor, sono davvero curioso”.
Finalmente arrivai alla fine del bosco, nei terreni coltivati a panicus davanti a Laumellum. Il grosso borgo era ben fortificato fin dai tempi dei Romani e continuava ad essere protetto dalle mura longobarde.
Entrai in città senza problemi e senza troppi controlli grazie al nome di Wielfried, il nobiluomo nostro cliente.
Il villaggio era vivo come sempre e passai al solito, con Mor a passo lento, dinanzi alla possente roccaforte ed ai venditori ambulanti che mettevano in bella mostra i loro prodotti: il mercato era frequentato a quell’ora del mattino e le donne se ne tornavano con panieri e sacche ricolmi. Anche mio padre talvolta vendeva a Laumellum parte del nostro orzo, ma anche rape e ghiande.
Vi erano vessilli spiegati a festa sulle pareti del castello ed una animazione particolare tutt’intorno.
Fermai un mercante di selvaggina.
-“ Ditemi, buon’uomo, poiché sono forestiero, il motivo di quest’insolita animazione. Non ricordavo il villaggio così festoso dall’ultimo ottimo raccolto di qualche anno fa!”.
-“Come fate a non sapere giovane? E’ per lei, la Regina, che si sposerà fra qualche giorno”, disse il villano eccitatissimo.
Trasalii. “La Regina”, pensai, “Teodolinda!”.
Avevo saputo da un paio di viaggiatori di passaggio a Med della tragica morte del re Autari e della volontà della regina di maritarsi di nuovo, ma non pensavo che tutto ciò sarebbe avvenuto così presto. Beh, la regina non meritava di restare sola! Stava governando bene ed era solo grazie a lei che il nostro popolo era da poco in ottimi rapporti con i Longobardi.
E poi, maritandosi a Laumellum, mi dava la possibilità di vederla come mai mi era successo.
Interessato, smontai da cavallo e proseguii a piedi accompagnando Mor per le briglie.
Il villaggio era veramente attivo e piacevole. Il decumanus brulicava di gente: mercanti frettolosi e vocianti, soldati paffuti e gioviali che entravano e uscivano dalle locande, giovani nobili a cavallo, donne della servitù impegnate nelle spese per il pranzo.
Era piacevole percorrere il selciato lentamente, guardandosi intorno e scorgendo dalle finestre delle case le giovani atte ai lavori domestici od a giochi nei giardini ricchi di fiori. In breve raggiunsi l’abitazione del nobile Wielfried. Il nostro colloquio fu, al solito, breve ma preciso e l’accordo subito raggiunto.
”Mio padre ne sarà felice”, pensai subito.
Grande fu la mia sorpresa, lasciando il villaggio quando ormai il cielo si cingeva di rosso, nell’incontrare Adalberto.
-“Salve fratello, come mai mai qui?...”
-“Salve a te! Dovevo finire un lavoro di muratura al castello.Per la grande festa, sai”.
Non sapevo stesse lavorando per i principi.
-“Neanche io, in verità”, disse captando il mio pensiero, era una sua straordinaria capacità.”Ne ho avuto notizia solo nel pomeriggio, dopo aver completato il pozzo di una casa. Anzi, domani potrai accompagnarmi, ne avrò per poco tempo ancora, così oltre ad aiutarmi, potremmo magari scoprire qualcosa d’interessante…”.
-“Bene!”, risposi, “Verrò senz’altro se non ci sarà molto da fare nel campo”.
Il ritorno fu piacevole grazie alla compagnia di Adalberto; giungemmo alla nostra sala[5] in tempo per aiutare nostro padre a porre al riparo per la notte gli attrezzi del lavoro. Nuvole minacciose già coprivano il cielo. Avrebbe piovuto la notte.
Consumammo la cena, supfa e frittelle di borragine e cicoria, parlando tutti del grande evento, dopo avere mostrato a mio padre, a conferma della vendita del grano, un sacchetto di sonanti tremissi.
-“Qualche volta penso di cercare anche qualche altro compratore”, disse lui, “poi penso a messere Wielfried e mi dispiace solo avere pensato di dare il grano a qualcun altro.”
-“Difatti è sempre cortese e generoso, anche se non la tira mai per le lunghe”, replicaii.
-E’un fatto eccezionale potere vedere da vicino la Regina!”, sbottò Arcangelo.”Ella è quasi sempre rimasta a Ticinum, la capitale, ed il suo matrimonio qui farà ricordare per sempre queste foreste”.
-“Bene allora”, sentenziò mia madre, “andremo tutti a vederla, dunque”, terminò lanciando un’occhiata a mio padre che già stava per replicare con un’obiezione.
Intanto, aveva già incominciato a piovere.
Prima una pioggia leggerissima aveva inumidito appena il terreno e battuto sul tetto come avrebbero fatto decine di picchi, poi l’acqua sempre più fitta aveva reso la terra intorno alla casa un mare di fango, senza accennare a smettere. Ben presto, cullati dal rumore della pioggia e spente le candele di sego, ci addormentammo. Un cane, lontano, latrava.
La mattina dopo, al nostro risveglio, pioveva ancora. Decisi quindi di seguire mio fratello al villaggio, allorché non sarebbe stato possibile lavorare nei campi quel giorno.
Partimmo a piedi per Levium, avvolti dai mantelli pesanti e raggiungemmo le prime abitazioni dopo un’ora circa di cammino. Che aria differente aveva il villaggio da come l’avevamo visto entrambi ieri! Le strade erano quasi completamente deserte e solo qualche soldato girava scontento per il villaggio, di certo obbligato a stare di pattuglia sotto l’acqua battente mentre il suo comandante si scaldava e bevevo accanto al fuoco. Il resto della popolazione se ne stava invece al riparo, chi nelle botteghe, chi in casa oppure nelle locande.
Le guardie di turno all’entrata del castello riconobbero Adalberto e ci lasciarono entrare.
-“Penso tu non sia mai stato qui, vero?”, mi disse.
-“In effetti mai ed è bello come immaginavo…anche se...”, e qui abbassai la voce fino ad un sussurro, “non fastoso come la fortezza di Ticinum”.
-“Quella è tutta un’altra cosa, come la reggia di Mediolanum”, replicò Adalberto.
Subito fummo nel grande cortile, dove mio fratello doveva terminare la copertura di un muretto di sostegno. la pioggia finalmente accennava a diminuire, così lasciammo i mantelli a cavallo del grande pozzo del giardino.
-“Peccato non potere vedere la grande sala e le altre stanze”, disse Adalberto raccogliendo i mattoni che gli porgevo,” ne vedremmo delle belle…”.
La fine della pioggia aveva permesso al cortile di rianimarsi. Personale della servitù ora lo attraversava velocemente, la pattuglia di guardia stancamente, i nobili a passeggio lentamente.
Poi, le vedemmo.
Tre o quattro giovani donne a passeggio con un’anziana accompagnatrice. Scossi Adalberto, che si voltò interrompendo il lavoro. Si assomigliavano tutte fra di loro, nei loro abiti sfarzosi e colorati che davano rilievo al viso bianchissimo ed alle lunghe trecce bionde. Passeggiavano quietamente chiacchierando, precedute in ogni passo dall’anziana dama. Dapprima scansarono attentamente le pozzanghere sul selciato e sui sentieri divenuti fangosi, poi non poterono evitare di bagnarsi comunque, visto che un sordo rumore annunciò un altro temporale.
Essendo prossime al pozzo al cadere delle prime gocce, l’anziana tutrice vide i nostri mantelli colà posati e li prese subito coprendo la testa delle giovani donne che corsero velocemente al riparo.
Adalberto ed io lasciammo rapidamente il cortile a nostra volta e trovammo un’opportuna copertura sotto un colonnato.
-“Eccola di nuovo!”, dissi, “ e fra l’altro adesso siamo senza mantello…Però ne è valsa la pena visto a chi sono destinati”.
-“Sono d’accordo”, disse Adalberto, “non avevo mai visto al villaggio delle donne così belle e chiare di pelle, e si dice che Teodolinda sia tale e quale. Comunque”, aggiunse,” i nostri mantelli ce li riprenderemo fra poco. Vieni!”.
Ed entrò nel castello.
Gli fui subito dietro, non prima però di essermi guardato alle spalle perché mi aspettavo comparire le guardie da un momento all’altro. Anche all’interno vi era un continuo movimento di preparativi per la grande festa, così che le pattuglie faticavano a distinguere la servitù del castello dalle genti del villaggio che partecipavano agli allestimenti.
Fu così facile confondersi con gli addetti alle salmerie, con i birrai, coi contadini dalle sporte cariche di pollame, coi cacciatori reali di ritorno dalla Silva Urbe[6] con cervi e daini.
La nostra ricerca fu per fortuna breve: vedemmo infatti le giovani appoggiate alla balaustra di una passerella che collegava due parti del castello. Di là rimiravano il giardino fradicio d’acqua respirandone la frescura. Due tenevano fra le mani i nostri mantelli umidi. Inutile aggiungere che la vecchia balia era nelle immediate vicinanze.
-“Giovani dame”, dissi inchinandomi – e lo stesso fece mio fratello – e rivolgendomi loro con le poche parole che sapevo di winnile, “ a causa della pioggia che continua a cadere, dobbiamo chiedervi di restituirci i nostri mantelli”.
-“Quelli che tenete fra le mani…”, aggiunse Adalberto.
Un sorriso colorò di rosa le bianche gote delle giovani, guardando i mantelli.
“Potete darli loro”, disse la voce della tutrice alle nostre spalle. Si era espressa in volgare neolatino, la nostra lingua comune, perciò non osammo aggiungere altro né parlare fra noi per timore, certezza anzi, che potesse capire quello che stavamo dicendo. Le due giovani si avvicinarono tenendo gli occhi bassi e ci posero i due mantelli; sotto le falde della stoffa sfiorai le mani della dama che mi si era avvicinata e così fece Adalberto, come poi seppi.
Un nuovo inchino e ringraziando lasciammo rapidamente la passerella coperta senza voltarci per non sollevare le ire della custode.
Ci fermammo alla locanda per ristorarci prima di intraprendere il cammino verso casa. L’ambiente era caldo ed accogliente ed appena varcata la soglia, notammo un folto gruppo di persone attorno a un tavolo. Subito ci avvicinammo scorgendo seduto un vecchio coperto da uno spesso mantello. Tutti gli altri erano invece in piedi e solo pochi, nel locale, non facevano caso alla scena, seguitando a consumare il proprio pasto.
-“ Vi dico che il sovrano sarà Agilulfo, così come ha voluto il destino”, raccontava l’uomo, fra un boccone e l’altro di pane intinto nella densa zuppa di verdure.
Presto fummo anche noi in mezzo al gruppo.
-“Io ero presente al matrimonio della Regina con Autari, vi dico, e lì il destino ha dato un segno. Era una giornata buia, il cielo offuscato dalle nubi e un temporale fu subito sulle nostre teste”, continuò bevendo una tazza di vino.” Tuoni e lampi come non se ne erano mai visti squarciarono il cielo ed una saetta colpì un grosso albero del giardino del re. Sussultai nel comprendere ciò che esso volesse dire, ma non potei fare a meno di riferirlo al duca Agilulfo, il quale allora faceva ricorso ai miei servigi:
“Tra non molto la donna che sta per maritare il re sarà vostra moglie…”, gli dissi”.
Tutti quelli intorno al tavolo allibirono.
-“Il duca”, terminò il vecchio,” minacciò di decapitarmi per ciò che avevo detto: gli replicai che poteva farlo, certamente, era in suo potere disporre di me come voleva, ma aggiunsi che non poteva invece cambiare quello che sarebbe stato!”.
Subito dopo, il vegliardo lasciò la locanda senz’altro aggiungere, appoggiando nelle mani dell’oste qualche moneta per pagare il pranzo.
Uscimmo anche noi dopo aver consumato una coppa di vino caldo. Non eravamo sorpresi dai discorsi dell’uomo.
-“E’…è come ci disse Abramo molto tempo fa, ricordi?”, dissi a mio fratello.
-“Sì, la storia dell’indovino al matrimonio del Re”, replicò Adalberto. “Quell’uomo non finirà mai di sorprendermi, anche se …ai carri volanti di cui parla non posso proprio credere!”.
Tardammo un poco quella sera e in casa avevano già mangiato, ma la zuppa sempre calda nel paiolo sopra il fuoco ci confortò subito facendoci dimenticare la giornata fredda e piovosa ma non l’avventura vissuta.
Non lasciammo casa nei due giorni che ci separavano dalla grande festa a Levium, impegnati nei lavori con nostro padre e Arcangelo, ma felici di pensare che avremmo festeggiato e riposato anche noi dopo la cerimonia nuziale.
Furono giornate piene, occupate nella raccolta della legna per il fuoco, nel procurare le ghiande per il maiale, nel raccogliere bacche e frutta selvatica, nel riparare il tetto del pollaio.
E venne il gran giorno. L’aria fresca e pulita. Ci levammo presto per preparare il carro con cui raggiungere Levium e partimmo di buon’ora.
Contrariamente agli altri giorni, il sentiero nel bosco era ben affollato di carri, pellegrini, altri viaggiatori di tutte le caste che si stavano recando al villaggio per l’importante avvenimento.
Il villaggio inghirlandato era solenne e festoso ed in ogni angolo vi erano capannelli di gente animata e felice.
-“Anche voi qui, damigelle”, dicemmo incontrando alcune giovani donne del nostro villaggio e ci allontanammo con loro, fra i sorrisi dei nostri genitori, per assistere da vicino al corteo che fu magnifico e festoso, dominato dalla bellezza della regina e dal sorriso bonario del duca Agilulfo.
Prima vennero i soldati a piedi.
Li sentimmo, ancor prima di vederli apparire in fondo alla strada che veniva da Ticinum. Poi scudieri e paggi reali, infine i Gasindi, i “compagni”, la fedelissima cavalleria a protezione del re guidata dal mahrskalk che precedeva, anzi circondava nella loro imponenza, il sovrano e la regina.
Il lungo corteo percorse il decumano fra due ali di folla accorsa per l’imperdibile occasione e terminò il suo cammino sul sagrato della chiesa ove il graf[7]e il vescovo accolsero gli sposi.
Prima di ritirarsi nel castello, Agilulfo e Teodolinda salutarono il popolo nella grande piazza gremita dai villici.
Teodolinda era sempre di più la nostra regina e noi, vecchi Celti, ci sentivamo sempre più Longobardi.

[1] piccola rete a strascico
[2] dal celtico “palude”
[3] Dal celtico “la zona delle foreste più fitte”, l’odierna Sartirana
[4] Dai Levi, popolo fondatore della cittadina
[5] termine germanico-longobardo per indicare la casa, l’abitazione
[6] la vasta foresta nei pressi di Widu, l’attuale Marengo, riserva di caccia prediletta fin dai tempi del re Alboino
[7] il conte, che governava in nome del re il gau, ossia il contado della zona

1 commento:

opicino ha detto...
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